
Ma qui sono gli occhi tranquilli e la voce decisa di Sabir che ci interessa raccontare, uno che è quasi morto perché andava a un comizio, e che ci sarebbe tornato subito, col dolore nel cuore, perché il partito di Benazir doveva vincere, anche e soprattutto in suo nome. Sabir non sapeva nulla del programma del Partito Popolare Pakistano, anche perché nessuno, di nessun partito, ha mai fatto cenno alle cose da fare. La battaglia elettorale di questi giorni in Pakistan è stata pro o contro le persone e i simboli, Musharraf e le sue leggi liberticide, Benazir Bhutto e il suo martirio, Navaz Sharif e la sua rivincita personale contro chi lo aveva cacciato dal paese.
Ora il punto è, quanto è lontano il Pakistan dalle nostre elezioni, quanto è distante dalla corsa delle primarie americane? Certo, se ci mettiamo a contare il numero di morti e feriti, il tasso di paura e violenza che ha scosso questo paese durante la campagna elettorale, allora ci separa un abisso da quello che comunque è stato definito all’unisono dall’Occidente un “importante passo verso il ritorno alla democrazia”. Fa riflettere, semmai, come il tasso di democraticità di un paese venga realisticamente censito a seconda delle necessità politiche del nostro mondo. Per cui un generale al potere può diventare dittatore o presidente a seconda dei bisogni, soprattutto di Washington.
Se invece restiamo all’incontro con Sabir, allora dobbiamo decidere una cosa che può riguardarci da vicino in questi giorni di elezioni, se cioè votare un simbolo sia segno di immaturità e arretratezza oppure voglia di sperare, comunque, di essere in vita. Nel secondo caso fate così, mescolate Obama, un repubblicano a piacere, Veltroni, Berlusconi, e scegliete d’istinto. Sperando che Barak tenga duro, almeno fino al 13 aprile. (da DNews)