http://Il tuo 5x1000 ad Amnesty International

venerdì 28 dicembre 2007

L'ultimo dell'anno

Key West è l’ultima delle isolette che si allungano come un pontile dalla Florida verso Cuba. Più vicina a l’Avana che a Miami è una specie di circo turistico dove si va per i tramonti, per misurare la distanza dall’altro mondo, per bere nei bar dove una volta si fermava Hemingway e che adesso si contendono visitatori a colpi di sosia (dello scrittore) e feroci battaglie pubblicitarie. Eppure uno di quei bar vince la sfida della curiosità per un dettaglio: le sue pareti sono interamente tappezzate da biglietti. Per lo più da visita ma anche semplici pezzi di carta con su scritte due parole e un nome. A centinaia ricoprono tutti i muri, attaccati con le puntine, il nastro adesivo, incollati in qualche modo. Da lontano niente di più di una maniera singolare di arredare il locale, da vicino si potrebbe stare ore a fantasticare sul commesso viaggiatore di aspirapolveri del New Jersey che sta accanto al broker di Chicago, a fianco il titolare di una ditta di trattori del Connecticut, quasi sovrapposto alla professoressa di un college dello Iowa, tutti passati lì almeno una volta, tutti che si sono fermati almeno un minuto. Chissà cosa pensavano, se erano tristi o allegri, se sono entrati soli e usciti insieme o il contrario e perchè hanno voluto lasciare una traccia. Biglietti in un bar. Giornale in un bar come quello che state leggendo. In questi ultimi giorni dell’anno ho pensato al piccolo caffè del quartiere romano dove qualche volta passo a prenderne una copia, ho immaginato le migliaia di piccoli e grandi posti dove mani casuali o affezionate hanno aperto questi fogli, ho riletto le mail che ho ricevuto, gli sms arrabbiati dei lettori pubblicati ogni giorno su qualunque argomento, specialmente il governo e le cose che non vanno. Che grande idea e che strumento potente questo di lasciare l’informazione gratis sul bancone di un bar, perchè tutti la possano leggere e commentare. Aggiungo che ancora più grande è stato il modo di guidare questa esperienza un po’ visionaria un po’ corsara. Si poteva alzare il volume, gridare, argomentare sommariamente, fomentare passioni, tanto siamo nei bar e invece, liberi noi di scrivere ma sempre sulla rotta del ragionamento, provando a spiegare che le cose sono molto spesso più complicate di uno slogan o di una dichiarazione in tv.
Ora ci sono gli auguri per il nuovo anno, a questo giornale, a chi resta e a chi, come me, saluta. Ma soprattutto a chi legge oggi e leggerà domani, l’augurio di non fermarsi mai alla prima opinione, nemmeno se offerta gratis al bancone. Quanto ai biglietti che ho scritto in questi mesi, un po’ come gli avventori di Key West, sono stati messaggi lasciati per provare a capirsi. Qualche volta succede, anche nei bar.

mercoledì 19 dicembre 2007

Le maestre del Metropolitan

Abbiamo tante cose a cui pensare, alle dimissioni speciali di un generale della guardia di finanza con annessa mozione di sfiducia individuale per il suo nemico ministro o anche al fidanzamento, semplice semplice come le sue canzoni, di una delle italiane più francesi sulla piazza di Parigi: quindi non so se ci sia ancora tempo e voglia per riflettere un poco sul tema del malessere del nostro paese sollevato qualche giorno fa da un’inchiesta americana ma ci provo. Ci sono state repliche difensive, qualche ammissione, autoanalisi ricorrenti sui perchè di una nazione bloccata che ha paura del futuro, insomma materiale più o meno utile a intercettare quello stato d’animo collettivo che sembra oggi mutare di segno, virare sul pessimismo, sulla poca voglia di scommettere sul domani e quello che sarà. Per questo, come piccolo antidoto, voglio raccontarvi quello che ho visto in una mezza giornata passata al Metropolitan di New York. Come tutte le mattine di giorni feriali a popolare le sale immense di quello che è uno dei musei più grandi del mondo ci sono soprattutto ragazzi e ragazze, da soli o con i genitori ma quasi sempre organizzati in visite delle scuole. Sciamano tra i sarcofagi dei faraoni egizi con quaderni per prendere appunti, si fermano davanti alla potenza degli impressionisti, si perdono nella traboccante contaminazione delle sale che nonostante i grandi spazi sembrano ammassare gomito a gomito la bellezza del mondo, un pezzo sull’altro, con un inevitabile effetto di stordimento soprattutto per chi entra la prima volta. Tutto sembra condurre verso una inebriante quanto prevedibile confusione soprattutto per i più piccoli, invece è a questo punto che arrivano le maestre. Ne ho vista una, bianca, occhiali tondi, capelli raccolti, mani sottili che spiegava il tema dell’animismo davanti alle antiche maschere delle civiltà africane. Lei era in piedi che quasi recitava davanti a venti piccoli cuccioli neri, bambini e bambine, accovacciati per terra come una tribù davanti al fuoco. Mi sono fermato un poco a sentire lei che chiedeva, che cosa è la morte? E loro che alzavano la mano, si tu, dimmi, quando non si respira maestra, va bene e adesso tu, là in fondo, cosa rimane, cosa c’è dopo. E tutti con il braccio in alto, tutti volevano dire la loro, i bambini, e lei come un direttore d’orchestra. E qualche sala più in là ce n’erano altre, con i loro piccoli o grandi gruppi di cuccioli, a spiegare, a fare domande, a rispondere. Tutte insieme mi sono sembrate anche loro i pezzi che fanno uno stato d’animo, quello di una nazione che testardamente vuole guardare avanti. E pensare che quasi nessuna delle meraviglie esposte al Metropolitan parla di America. Semmai, almeno un po’, parla di noi.

venerdì 14 dicembre 2007

Lo scontento italiano e il NYT

L'idea era quella di raccontare le frotte di italiani che si riversano in questi giorni per le strade di Manhattan felici di fare shopping scontato per via dell'euro forte. Avevo preso le solite informazioni sui posti, le convenienze, le specializzazioni, mi raccontano di agenzie tutto compreso che li imbarcano a gruppi per gite rapide tra Madison avenue e la Quinta strada e che li riportano indietro dopo tre giorni contenti di aver speso tredicesima e varie in computer e aggeggi digitali che in Italia li paghi il doppio e non importa se alla fine il viaggio ti costa come una tombola perchè comunque hai risparmiato, dipende dai punti di vista.
Cosi mi accomodo di mattina presto, per via del fuso orario, in uno Starbucks qualunque, cappuccino e giornale, a riordinare le idee prima di iniziare il viaggio nella felicità italiana delle spese scontate. E invece ecco che mi ritrovo a leggere di Italia sulla prima pagina del New York Times e non si parla di un paese felice, anzi. La parola usata, analizzata, che fa da filo conduttore alla inchiesta lunga una pagina intera del più importante quotidiano d'america sull'Italia di oggi è disagio, per essere precisi, ripetuta più volte, in italiano, "malessere". È un sentire comune dice l'autore Jan Fisher che riguarda la politica, l'economia e la vita sociale e che trova conferma in una ricerca dell'Università di Cambridge: gli italiani oggi si sentono il paese meno felice dell'Europa occidentale. Così comincia un'altro viaggio fatto di interviste a persone note e meno note che in poche parole tratteggiano l'altra faccia di questo paese. Ci sono i politici certo che dicono la loro, ma si ricordano anche le sortite di Beppe Grillo definito comico e blogger di 59 anni con una grande criniera grigia che grida in piazza "basta! Basta! Basta", una parola, traduce il Nyt, che significa ne abbiamo abbastanza. Poi si segnalano i due libri del malessere, "la casta" di Stella e Rizzo, "Gomorra" di Saviano, e soprattutto le considerazioni di italiani normali, studenti o giovani professionisti che raccontano della sensazione e della difficoltà a diventare il famoso paese normale che un tempo sembrava essere un obiettivo raggiungibile, tanto da farci titoli di libri. Ora invece la lunga e nemmeno cattiva indagine del New York Times sembra darci meno chance. Paragona il possibile destino dell'Italia a quello della Repubblica di Venezia, la città più bella del mondo, che dominò per secoli i commerci con l'Oriente e finì col perdersi senza nemmeno essere conquistata. Insomma non so alla fine se ce la faremo, so che qui a New York oggi, in questo caffè che adesso si e' riempito di ragazzi, cappello, sciarpe e computer portatili, di signore che scrivono sui quaderni e sorseggiano qualcosa di caldo, di turisti capitati per caso che aspettano l'apertura dei negozi, ho speso tre euro per colazione e giornale e ho capito qualcosa di più del posto dove sono nato.

sabato 8 dicembre 2007

Uomini e fiumi

Diciamo la verità i più avvertiti lo hanno già capito da un po’. Dietro guerre e conflitti di oggi, nelle più vicine o remote terre del mondo quasi sempre c’è il petrolio. Non aggiungiamo dettagli perché qui vogliamo parlare delle guerre che verranno, quelle che si scateneranno per accaparrarsi un’altra di quelle risorse della terra che ora sembra normale avere a disposizione senza limiti di sorta ma domani chissà. Per questo l’immagine di un vescovo, saio e sandali, chino sulla sponda del fiume, quasi a pregare la corrente che scorre lenta del rio Sao Francisco, nordest del Brasile, colpisce come una visione, di quello che potrebbe essere il futuro, combattere metro per metro, giorno per giorno, per non perdere l’acqua. Gia perchè è di acqua che stiamo parlando, proprio di quella cosa che scorre a litri mentre ci laviamo i denti e non ci facciamo caso. Invece don Frei Luis Flavio Cappio lo ha capito benissimo e da una settimana ha deciso di fare tutto quello che può, preghiera e sciopero della fame assieme, perché non accada l’irreparabile al fiume che ha deciso di difendere con tutti gli indigeni che gli vivono attorno. Si batte don Cappio contro un mega progetto di deviazione delle acque che dovrebbe servire ad irrigare l’arido territorio del nordeste, 720 chilometri di canali artificiali di cui, a stare ai documenti ufficiali, dovrebbero beneficiare 12 milioni di persone, contadini innanzitutto. E siccome al governo del Brasile adesso c’è Lula, amico del popolo, indigeni e contadini dovrebbero fidarsi. Invece non sembra essere cosi, in molti si sono schierati con il vescovo ambientalista che contesta metodi e merito del mega progetto. A dar man forte al francescano anche studi e ricerche di università che hanno valutato costi e benefici dell’opera che finirebbe, dicono, per far danni più grandi dei vantaggi che produrrebbe, questi ultimi soprattutto alle grandi aziende agricole. Propongono piani alternativi ma per ora il governo sembra non voler tornare indietro e anzi usa l’esercito per la deforestazione che spianerà la strada ai canali. Non siamo in grado da qui di valutare realmente quello che sta succedendo laggiù, di sicuro ci arriva l’eco di un metodo applicato, in nome dello sviluppo, in molte parti del mondo. In Africa, abbiamo visto crescere una gigantesca diga che sbarrerà la strada al Nilo, in Sudan, e lo trasformerà in un lago artificiale lungo quasi duecento chilometri. Saranno cancellati decine di villaggi, spostate a forza 50mila persone, cancellate per sempre tracce archeologiche di un passato prezioso. Tutto questo nei prossimi mesi, nel silenzio assoluto. Bisognerebbe avvertire don Cappio o cominciare noi a capire che l’acqua, già oggi, è più importante del petrolio.

mercoledì 5 dicembre 2007

Quelle parole dalla giungla

La lettera e il video sono stati resi pubblici qualche giorno fa ma vogliamo parlarne ancora, come a tenere viva una fiammella. Non solo perché speriamo tutti in una svolta nella terribile storia di questa donna sequestrata ormai da anni nella giungla colombiana. Ma soprattutto perchè le parole scritte da Ingrid Betancourt vanno dritte al cuore e sono lezione di straordinaria educazione sentimentale. Sappiamo che la famiglia aveva definito la diffusione della lettera da parte delle autorità colombiane una violazione della intimità e una volta letta e riletta ne capiamo le ragioni. Sono le stesse però, che alla fine illuminano sul rigore, la sobrietà, il pudore e la forza di una donna che in condizioni disumane “io che vivo come una morta” riesce a parlare dei suoi cari e del suo paese come raramente ormai abbiamo occasione di ascoltare. Una testimonianza preziosa quindi, in questi tempi di affetti colmati con le cose, di come con le parole si possano costruire e stringere legami perenni, di come si possa dimostrare e chiedere amore su un piccolo pezzo di carta che dopo tre anni si ha la possibilità di riempire, nel breve tempo prima che i carcerieri vengano a prenderlo. Leggere come descrive e sembra vedere dinanzi agli occhi i figli, come sono cresciuti e come saranno diventati, Lorenzo “il mio musicista che canta e m’incanta, il signore del mio cuore”, Melanie “il mio sole di primavera” fa tremare all’idea di quelle famiglie mute la sera davanti alla tv. E con quale naturalezza chiede alla madre di dire ai ragazzi di “mandarmi tre messaggi alla settimana. Niente di speciale, se questo è anche il loro desiderio e se avranno voglia di farlo”. Ora immaginatela li, in mezzo alla giungla, in catene assieme ad altri prigionieri, che quasi non mangia e si sposta ogni notte da un posto all’altro, che chiede ai figli di scrivere con regolarità, sapendo che nulla probabilmente le giungerà di quel conforto. Viene il brivido a ripensare a certe conversazioni su che hai fatto a scuola, niente, vado di là, non rompere.
E poi c’è il Paese, il proprio Paese “quando la notte calava più buia la Francia è stata il faro”, “ammiro la capacità di mobilitarsi di un popolo che, come diceva Camus, sa che vivere significa impegnarsi”. Come si fa a non fremere un poco per parole così, a non riflettere su radici, identità e sulla maniera vigorosa e gentile di coltivarle tanto da scrivere queste cose dinanzi a un nuovo inverno di prigionia, lontano da tutto e da tutti. Poi certo c’è anche dell’altro, la fede e la politica, il tema scomodo dei sequestrati e della fermezza a combattere la guerriglia. Ma la lettera che arriva dalla giungla colpisce soprattutto perché fa riflettere tutti su sé stessi. Famiglie e Paesi.