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mercoledì 5 dicembre 2007

Quelle parole dalla giungla

La lettera e il video sono stati resi pubblici qualche giorno fa ma vogliamo parlarne ancora, come a tenere viva una fiammella. Non solo perché speriamo tutti in una svolta nella terribile storia di questa donna sequestrata ormai da anni nella giungla colombiana. Ma soprattutto perchè le parole scritte da Ingrid Betancourt vanno dritte al cuore e sono lezione di straordinaria educazione sentimentale. Sappiamo che la famiglia aveva definito la diffusione della lettera da parte delle autorità colombiane una violazione della intimità e una volta letta e riletta ne capiamo le ragioni. Sono le stesse però, che alla fine illuminano sul rigore, la sobrietà, il pudore e la forza di una donna che in condizioni disumane “io che vivo come una morta” riesce a parlare dei suoi cari e del suo paese come raramente ormai abbiamo occasione di ascoltare. Una testimonianza preziosa quindi, in questi tempi di affetti colmati con le cose, di come con le parole si possano costruire e stringere legami perenni, di come si possa dimostrare e chiedere amore su un piccolo pezzo di carta che dopo tre anni si ha la possibilità di riempire, nel breve tempo prima che i carcerieri vengano a prenderlo. Leggere come descrive e sembra vedere dinanzi agli occhi i figli, come sono cresciuti e come saranno diventati, Lorenzo “il mio musicista che canta e m’incanta, il signore del mio cuore”, Melanie “il mio sole di primavera” fa tremare all’idea di quelle famiglie mute la sera davanti alla tv. E con quale naturalezza chiede alla madre di dire ai ragazzi di “mandarmi tre messaggi alla settimana. Niente di speciale, se questo è anche il loro desiderio e se avranno voglia di farlo”. Ora immaginatela li, in mezzo alla giungla, in catene assieme ad altri prigionieri, che quasi non mangia e si sposta ogni notte da un posto all’altro, che chiede ai figli di scrivere con regolarità, sapendo che nulla probabilmente le giungerà di quel conforto. Viene il brivido a ripensare a certe conversazioni su che hai fatto a scuola, niente, vado di là, non rompere.
E poi c’è il Paese, il proprio Paese “quando la notte calava più buia la Francia è stata il faro”, “ammiro la capacità di mobilitarsi di un popolo che, come diceva Camus, sa che vivere significa impegnarsi”. Come si fa a non fremere un poco per parole così, a non riflettere su radici, identità e sulla maniera vigorosa e gentile di coltivarle tanto da scrivere queste cose dinanzi a un nuovo inverno di prigionia, lontano da tutto e da tutti. Poi certo c’è anche dell’altro, la fede e la politica, il tema scomodo dei sequestrati e della fermezza a combattere la guerriglia. Ma la lettera che arriva dalla giungla colpisce soprattutto perché fa riflettere tutti su sé stessi. Famiglie e Paesi.