http://Il tuo 5x1000 ad Amnesty International

giovedì 10 maggio 2007

Se la guerra ci viene a cercare


A proposito degli italiani e delle missioni di pace. Eravamo uno sparuto drappello di cronisti al seguito dei primi 40 alpini che andavano a sistemarsi a Khost, sulle montagne ai confini con il Pakistan. Era il febbraio di quattro anni fa. Roger King, generale americano allora comandante della missione Enduring Freedom, salutò i soldati italiani, indicò le bellissime cime innevate che circondavano la piana di Kabul e disse: “Le vedete lì in fondo, beh, quella è roba vostra, benvenuti in Afghanistan” e poi a noi aggiunse “questa è una combat mission” e non c’era bisogno di traduzione. Noi scrivemmo e puntuale, a stretto giro d’agenzie, arrivò la precisazione da Roma “Non scherziamo, la nostra è una missione di pace, i nostri ragazzi sono destinati a zone non a rischio e sono ben protetti”. Firmato il ministro della Difesa di allora, Antonio Martino.L’episodio mi torna in mente in questa primavera, a proposito delle preoccupazioni di un altro ministro della Difesa Arturo Parisi che qualche giorno fa, dopo l’ennesima giornata di combattimenti nel sud e nell’ovest dell’Afghanistan, con gli americani che snocciolavano dettagli e cifre dei talebani uccisi e sorvolavano sulle manifestazioni di protesta della popolazione di quei luoghi per i cosiddetti effetti collaterali (decine di civili morti), dettava così alle agenzie “siamo preoccupati per un eventuale coinvolgimento degli italiani in operazioni estranee alla missione votata dal Parlamento”. Già perchè anche questa volta gli italiani ci sono, sono acquartierati ad Herat, città capoluogo di una provincia del paese che dista poco più di cento chilometri dalle zone dove si combatte e anche questa volta trattasi di “missione di pace”, o meglio di “assistenza alla sicurezza” della nascente democrazia afgana. Ora, quanto devono durare i giochi di parole? È vero, le missioni non sono le stesse, quella “Enduring Freedom” a guida americana non è quella “Isaf” a guida Nato, le regole d’ingaggio sono diverse, ogni contingente e ogni paese ha i suoi “caveat”, cioè i limiti autoimposti ai propri soldati e però la guerra non fa tante differenze. Di sicuro non ne fanno i talebani, tutt’altro che morti e sepolti. Semmai potrebbe riproporsi, nelle chiacchiere tra soldati alleati, il vecchio e logoro luogo comune degli italiani abili solo in cucina e in salmeria. Dunque giusta la preoccupazione del ministro Parisi, giusto chiedere un coordinamento tra gli alleati per evitare sovrapposizioni e incoerenze nelle catene di comando ma il problema resta lì, tutto intero, a mano a mano che la primavera avanza. Se la guerra ci viene a cercare, che ne facciamo delle missioni di pace?