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mercoledì 23 settembre 2009

Il dolore e i numeri


Adesso che sono tornati davvero a casa, nei loro paesi, adesso, forse, si può fare una domanda. Siamo stati tre giorni dentro la cerimonia, domenica a Campino, lunedì nella basilica, ieri nelle parrocchie dei loro quartieri. Siamo stati inondati dalle lacrime in dettaglio, dai silenzi riempiti cogli applausi, dai campi lunghi delle bare e dei picchetti d’onore. Siamo stati aiutati da due bambini, che ci hanno indicato la strada, rompendo le righe dei funerali di Stato, una via d’uscita tutta italiana alla quale giornali e televisioni si sono aggrappati per dire che non era retorica, che la nostra era commozione vera. E allora eccoci alla domanda, o al grappolo di domande che si tengono l’una all’altra, aggrovigliate al raspo di nessuna certezza. Quanto si espone il dolore? Come funziona la matematica dei morti nei funerali di Stato? Fossero stati quattro, o tre o due i parà morti, che avremmo fatto? E fossero dieci domani, o venti domani l’altro, cosa faremmo ancora? E cosa dovrebbero fare gli americani con i loro 800 morti, e gli inglesi con duecento e olandesi e danesi che con meno soldati di noi hanno avuto il doppio delle perdite? Non in queste righe si discute della guerra giusta o del che fare, qui si domanda di un paese che ogni volta si stupisce di quanto sia brutta e cattiva, la guerra, si addolora in diretta per tre giorni di seguito, e poi, passa ad altro. (pubblicato su DNews)