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domenica 14 febbraio 2010

Quel giorno che provammo a salvare il Balilla

Questa è una storia di tanti anni fa, scritta su "il vaschione" un foglio della mia città che tanto mi ricorda il tempo che scorre ma non passa e non ho ancora deciso se sia un bene oppure no.

“Oggi sul giornale Il Centro ti citano per il tentativo di conservare il cinema Balilla. Ieri l’altro è crollato il tetto sulla platea. De profundis”.

L’sms arriva di prima mattina, secco, mentre sto facendo colazione. Devo sbrigarmi, devo andare in redazione, Saxa Rubra, dall’altra parte di Roma. Ormai questo è un percorso stradale che conosco a memoria. Come a memoria ricordo quel giorno, l’anno davvero non saprei, in cui partimmo per salvare il cinema Balilla. Era un giorno importante davvero, avevamo preparato tutto per bene, bisognava solo portare il progetto e incrociare le dita. Non ero solo, mi accompagnava il mio amico Paolo Di Fonso, che già lavorava sodo, a quell’epoca, nel distributore di benzina del padre ma sotto sotto ancora pensava, a quell’epoca, che prima o poi avrebbe fatto altro.

Andare a Roma a incontrare Renzo Rossellini, fratello di Isabella, figlio di Roberto, già la cosa in sé metteva soggezione, in più doveva essere anche un viaggio d’affari, almeno per come li concepivamo noi gli affari, in quegli anni ottanta dove si mescolavano sogni, politica, ingenuità e primi tentativi di cercare un lavoro. Lui allora era diventato presidente della Gaumont Italia, succursale della multinazionale cinematografica francese, nemica giurata delle grandi case americane, ispirava forti aspettative soprattutto in quelli affascinati dal miscuglio di cinema indipendente e voglia di tenere accesa, almeno nella cultura, un’idea se non di rivoluzione, almeno di cambiamento, il rifiuto a mangiare sempre più e per sempre quello che il “sistema” (allora una parola così veniva usata per indicare in sintesi tutte le malefatte vere o presunte del libero mercato, oggi la si usa con più precisione per fortuna, come nelle inchieste sulla camorra) aveva cucinato per tutti. In più, dalle nostre parti, il rischio era addirittura quello di un digiuno totale, visto che il “sistema” aveva deciso di chiudere definitivamente mense e rubinetti, perché da tempo ormai, le tre sale cinematografiche della città avevano serrato ben bene i battenti. Il Pacifico, storico cinema dell’importante famiglia omonima, la sala Antoniana, dei frati omonimi e il Cinema Balilla, piccolo, piccolissimo locale, dal nome rivelatore almeno dell’età, che fu il primo a sprangare porte e spengere proiettori.

Dunque la situazione è questa, una utilitaria viaggia verso Roma con due delegati di una cooperativa giovanile che sognano un intervento, a metà tra il mecenatismo e l’innovazione intravista, che possa fare rinascere almeno il più piccolo dei tre schermi della città.

Qualcuno si chiederà, ma perché Renzo Rossellini avrebbe dovuto ascoltarli, e soprattutto come erano riusciti ad avere un appuntamento con lui? Ho detto delegati di una cooperativa giovanile, in realtà la storia di quel gruppo di ragazzi è più lunga e complicata, attraversa la politica e la provincia, nel suo piccolo la storia della città, Sulmona, e di quegli anni, specchio di storie più grandi e anche più difficili che si vivevano in tutto il paese. In quel periodo i vecchi partiti erano tutti lì, a Roma come in periferia, c’era il P.C.I., c’erano i democristiani e i socialisti, i liberali e i repubblicani, e poi c’erano quelli della sinistra extraparlamentare. Una galassia di facce, striscioni, sedi, volantini e ciclostili, che a ricordarla adesso non sai deciderti se fa più nostalgia o tenerezza. In mezzo a questa galassia di eskimi, sciarpe, megafoni e ideologie sommarie ma appassionate, a metà degli anni settanta, nacque una radio. Una scelta coraggiosa oltre ogni immaginazione per quelli che la fecero pensando fosse solo una continuazione del volantino con altri mezzi. Perché invece scoperchiò un mondo, quello della comunicazione, che oltre a essere una prateria sterminata, li mise di fronte a obblighi, doveri e turni, prove inedite anche per la loro sperimentata formazione di militanti della politica. Insomma la radio pretendeva che si stesse lì, ore al giorno, tutti i giorni, a ragionare, a dire cose e formulare opinioni anche quando, come dopo brucianti sconfitte elettorali, non si aveva nessuna voglia di comunicare ad alcuno alcunché. In più la radio non aveva un nome qualunque, perché si chiamava Radio città futura, come quella storica, bandiera della sinistra romana e in qualche modo, di quella storica, fu una specie di succursale, almeno nei primi tempi. Lo slogan “una, dieci, cento RCF” divenne praticamente lettera morta quasi subito ma una radio in provincia, sorella minore di quella fondata nella capitale, ci fu e fu quella dei ragazzi di Sulmona. Addirittura i romani ci regalarono il trasmettitore e fu in quella occasione, la consegna dello strumento fondamentale per avviare l’impresa, che i ragazzi abruzzesi incontrarono per la prima e forse unica volta Renzo Rossellini, allora uno dei fondatori della radio, assieme all’editore Giulio Savelli.

Dopo i primi mesi la collaborazione si allentò, la radio di provincia si ritrovò per mare da sola ma sempre sventolando la bandiera di un nome importante, almeno in quelle acque. E da sola sperimentò rotte creative per sopravvivere, stamparono un “radio scritto” con l’intento di ampliare il dialogo tra gli ascoltatori ma soprattutto di racimolare qualche soldo di pubblicità, si inventarono programmi radiofonici in collaborazione con la sede regionale della Rai; alla fine, e siamo quasi arrivati al viaggio verso Roma, si incrociarono con la disastrosa crisi dei cinema della città. La chiusura del Pacifico soprattutto fu il colpo letale che si doveva evitare, così i ragazzi della radio si inventarono una soluzione che dà l’idea dell’aria che si respirava a quel tempo. Si candidarono a riaprire una delle sale, convinsero i frati ad accettare il tentativo, proposero ai lavoratori licenziati dal Pacifico di riavviare le proiezioni. Ci furono faticose trattative con il sindacato, riunioni surreali nelle quali ci chiedevano di assumere i licenziati, a noi che non avevamo mai visto uno stipendio in vita nostra e che semplicemente volevamo mettere in piedi una specie di cineclub con una vaga, vaghissima idea di far tornare i conti. Comunque sia, per qualche mese il miracolo ci fu. Riaprì la sala Antoniana, ribattezzata significativamente “Saint Anthony hall”, i lavoratori ricominciarono, Teresa la cassiera a fare biglietti, Michele la maschera a staccarli, e gli altri due a far girare il vecchio proiettore dei frati. Noi della radio, che intanto boccheggiava già di suo, gestivamo la baracca infilandoci sopra velleitari ma anche sorridenti pennacchi culturali, locandine fotocopiate con il programma e le recensioni dei film, insomma tutto l’armamentario di una storia giovanile di quegli anni, compresa una sconclusionata convivenza tra “operai” del cinematografo e “studenti” da cineclub che ovviamente non poteva durare.

Il “sistema” delle sale di allora (quello di oggi non so, ma immagino) non prevedeva infatti la sopravvivenza di esperienze piccole, tantomeno se venate da spontaneismo sia pure appassionato. Ce ne accorgemmo subito quando andammo a trattare con le case di distribuzione le “pizze”, cioè i film da noleggiare. Esisteva un sistema, questa volta è appropriato dirlo, che assomigliava all’idea di un treno, dove la locomotiva era il film importante, di cassetta, che tu volevi proiettare e i vagoni che erano quei titoli che le case ti imponevano di prendere, se volevi la locomotiva. Insomma il treno si affittava per intero, o niente.

Ecco, le cose stavano più o meno così quando i due ragazzi viaggiano verso Roma dopo aver convinto a telefono, in virtù dei passati radiofonici comuni, Renzo Rossellini ad ascoltarli almeno per un po’, nella sede italiana della Gaumont. Volevano prospettargli il progetto di riaprire la piccola sala del Balilla, trasformarla in una “flexi-hall” (l’inglese era già allora una vera mania) che potesse smaltire i vagoni, ospitare pellicole d’autore e anche concerti e spettacoli (in quegli anni i ragazzi della radio si erano cimentati, con alterne fortune ma anche qualche indiscutibile soddisfazione nel settore della musica dal vivo).

Accadde però che in assenza di Tom Tom e di telefonini, non ancora inventati, i due prima vagarono alla ricerca del numero civico giusto di una via scritta come indirizzo su un foglietto, poi si decisero a cercare una cabina per telefonare alla segretaria di Rossellini e chiedere spiegazioni, alla fine si sentirono dire che quella era la via sbagliata e che da lì ci sarebbe voluta almeno un’altra ora per raggiungerli e che il presidente non aveva tutto quel tempo e che quindi l’appuntamento era di fatto rinviato, a data da destinarsi.

Voglio solo aggiungere una postilla. Se tutto fosse andato per il meglio, se davvero fossimo riusciti a riaprire quel vecchio piccolo cinema, avevamo già pronto il nuovo nome. Volevamo dipingere la facciata di un preciso colore pastello e poi come cerimonia di inaugurazione, avremmo smontato davanti a tutti le prime due lettere dell’insegna e sistemato un accento sull’ultima. Lo spettacolo del cinema “Lillà” poteva cominciare.