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mercoledì 12 marzo 2008

Dimenticare Baghdad

Cinque anni fa, tra inverno e primavera, si bombardava Baghdad. Mai un anniversario sembra così lontano nel tempo, rimosso dalla memoria. Come gesto, come evento si tende a dimenticarlo, si è trasformato invece in una sorta di assuefazione alla morte e alla violenza, in quella città e non solo. A mettere assieme le agenzie di oggi, mentre scrivo, si fa rassegna di un doppio attentato in Pakistan, kamikaze a Lahore culla della cultura e della storia di quel paese, soldati americani uccisi in Iraq, l’Onu che fa il bilancio delle vittime in Afghanistan, ottomila solo nel 2007, millecinquecento civili, attacchi suicidi passati in un anno da 120 a 160; la Gran Bretagna che fa i conti delle sterline spese finora, bruciati dieci miliardi per mantenere soldati tra il Tigri e l’Eufrate e ai piedi delle meravigliose montagne afgane dell’Hindukush, spesa raddoppiata nell’ultimo anno. Solo ad allargare lo sguardo si intravede poi il tragico confine tra Gaza e Israele, i razzi lanciati da una parte, bombardamenti e carri armati dall’altra e ancora, l’instabilità pericolosa del Pakistan e l’enigma iraniano alla vigilia di elezioni tutte da decifrare. Insomma il quadro non è per nulla colori pastello e paesaggi rassicuranti eppure si fa fatica a fare un bilancio, a tirare le somme di quella sventurata guerra che durò tre settimane, a stare agli annunci di Bush, e che invece si è trasformata in un progressivo slittamento delle visioni del mondo, insinuando nella vita quotidiana di tutti l’idea che il peggio può sempre arrivare e che dunque i danni collaterali vanno presi come inevitabili.
Sento già il brusio vivace dell’obiezione. Non è Bush che ha cominciato, non è stato lui ad attaccare. Vero. Nessuno può dimenticare che l’inizio della storia fu l’11 settembre del 2001. Non lo fanno gli americani che ancora oggi, sullo sfondo di tutte le loro discussioni, respirano la polvere e le schegge di quella mattina. Leggere anche solo le ultime pagine de l’uomo che cade il libro che Don DeLillo ha scritto lentamente in questi anni per essere sicuro di afferrare quello che era stato e come avrebbe segnato per sempre la vita di New York, fa capire che ogni archiviazione è impossibile. Per loro e per noi.
Forse proprio per questo, però, fa rabbia ripensare alla sicumera con la quale il comandante in capo di quel paese ferito a morte e i suoi consiglieri sbagliarono, una dopo l’altra, quasi tutte le mosse successive. Non tanto i primi mesi in Afghanistan quando tutto il mondo gli diede mandato di cercare e trovare il responsabile di quella guerra sferrata al cuore dell’America, quanto poi la virata, rivelatasi bugiarda e nefasta, per puntare sull’Iraq. Chi si ricorda non solo le fialette che il buon Colin Powell dovette esibire al Palazzo di vetro per giustificare l’attacco a Saddam ma soprattutto la proterva certezza, rivelatasi tragicamente dilettantesca, che tutto si sarebbe sistemato in pochi mesi, il paese del dittatore trasformato in una base sicura per gli Stati Uniti, da lì avrebbero governato i rubinetti del petrolio e gli equilibri dell’intera regione. Anche ammesso (e niente affatto concesso) che fossero giusti e morali quei piani, così non è andata. Ecco allora, prepariamoci al quinto anniversario di Baghdad, chissà se qualcuno di quelli impegnati a girare il nostro paese, spiegando o stracciando programmi, si ricorderà di parlare chiaro agli amici americani, impegnati a scegliere, almeno loro, il futuro comandante in capo. Prima che ci chiedano altri soldati proviamo a dirgli ad alta voce perchè sentano bene: mai più una guerra così stupidamente ideologica, mai più trascinare alleati senza chiamarli a discutere. Perché combattere il terrorismo è una cosa seria. (da DNews)