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lunedì 21 aprile 2008

Traslochi

Mentre continua l’asta tra chi promette più sicurezza in vista del ballottaggio romano, io darei un cent per essere invece, in questi giorni, nei corridoi di Montecitorio o di palazzo Madama. Vorrei vedere chi fa gli scatoloni, vorrei seguirli per vedere dove li portano. Mi immagino i silenzi, gli sguardi, le pacche sulle spalle, i saluti mentre il rumore del nastro adesivo risuona nel palazzo ancora deserto. Ormai è una settimana che tutti, veterani o arruolati dell’ultima ora, si fanno domande e si danno risposte su quello che è stato. Non ci permettiamo di aggiungere nulla se non un dettaglio che ci ha colpito in questi giorni di autoanalisi collettiva via giornali e televisione. Un dettaglio nascosto nella catena di interviste a volti e nomi che ci erano comunque divenuti familiari, comunisti italiani, rifondazione, verdi, socialisti e rose nel pugno, sinistra democratica e arcobaleno, e poi anche le signore e i signori della destra e delle altre sigle dell’ultimo mese. Tutti attorno a loro, a chiedere perché, che cosa non avevano previsto, che cosa non avevamo capito. Faceva quasi tenerezza sentirli dire “ricominceremo” ma la cosa più singolare, il dettaglio appunto, era il senso di partecipazione che mostravano, anche senza volere, i cronisti che sapevano in cuor loro che quella sarebbe stata l’ultima volta. Già, l’ultima volta, ma per tutti. Non ci saranno più dichiarazioni da registrare, non ci saranno più telefonate da ricevere, non più decine di uffici stampa da chiamare, portavoce da sollecitare. Se la rivoluzione elettorale ha spazzato via due decine di gruppi parlamentari anche il mondo dell’informazione politica non potrà fare finta di niente. Ci sarà pure un po’ di sollievo in quelle redazioni, nei telegiornali ma non solo, dove da sempre gli equilibrismi per dare visibilità a tutti i rappresentanti del parlamento contribuivano a stressare oltremodo capi e redattori, ma col passare dei giorni si dovrà pur pensare a qualcosa da fare. Non si potrà più riempire la pagina o i minuti con la guerra delle parole tra questo, quello e quell’altro ancora, attenti solo a che non manchi nessuno, perché tra le cose chiare dette dal voto ce n’è sicuramente una: d’ora in poi quelli titolati a parlare, secondo la vecchia logica delle dichiarazioni contrapposte, si riducono, al massimo, a quattro o cinque. Chissà allora che non sia questa la volta buona per farsi qualche domanda su come la raccontiamo, la politica, su quello che noi giornalisti abbiamo capito di quest’Italia che ci cambiava sotto gli occhi mentre eravamo impegnati a raccogliere parole di partiti che poi sarebbero scomparsi o ripetere all’infinito quelle dei vincitori o dei loro concorrenti. Chissà che non si decida per esempio che i cronisti politici d’ora in poi, anziché restare chiusi nelle sale stampa aspettando la frase da non perdere, vadano loro a scoprire che ci sono gli operai che votano Lega, a perlustrare gli umori delle periferie dove italiani impauriti combattono contro stranieri disperati, a capire se e dove si accendono le spie del malessere e della voglia di protezione che questo paese ha segnalato con il voto. Qualcuno ci sta provando in questi giorni, fioriscono inchieste lampo sulla Padania, è tutto un incitare, torniamo in strada, andiamo sul territorio ma temo che non durerà.
Aspettiamo solo che si riempiano di nuovo i corridoi dei due palazzi e poi via, si ricomincerà a registrare le dichiarazioni di tutti gli esponenti del grande partito di maggioranza o del grande partito di opposizione, si saluteranno i vecchi che sono tornati, ci si organizzerà per entrare in confidenza con i nuovi arrivati. Tutti insieme, chiusi dentro, a raccontare l’Italia. Con gli scatoloni di quelli rimasti fuori che chissà in quale territorio saranno andati a finire. (da DNews)