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lunedì 28 aprile 2008

Uomini e fotocopie


La premessa è necessaria anche se banale: non è facile discutere con chi manda genericamente e vigorosamente a quel paese te e il posto dove lavori. Questa più o meno è stata la reazione di giornali, telegiornali e giornalisti al secondo “vaffa” day organizzato da Beppe Grillo sul tema delicato e decisivo dell’informazione e il potere in Italia oggi. Una reazione prevedibile, agevolata anche dalla scelta oggettivamente infelice di programmare le manifestazioni il giorno del 25 aprile, di paragonare la galassia dei suoi simpatizzanti a partigiani che liberano l’Italia dal nuovo fascismo dei media, insomma è stato quasi obbligatorio nelle redazioni mettere l’elmetto a difesa della categoria e reagire nel più classico dei modi, cronaca dei fatti, un paio di commenti a stigmatizzare i toni inaccettabili e poi sordina, avanti, si passa ad altro. E invece no, non bisogna mettere in archivio temi e argomenti proposti da Grillo e dal suo movimento. Non bisogna farlo, non solo perché è del tutto evidente che raccogliere in un giorno centinaia di migliaia di firme a sostegno di qualunque cosa è segno di democrazia e di una società civile viva ma soprattutto perché è chiarissimo che il mondo dell’informazione è ormai dentro a un tunnel in trasformazione dal quale nessuno sa esattamente come si uscirà, con quali proprietari, quali consumatori, e soprattutto che tipo di giornalisti, se ancora la parola avrà un senso. Allora meglio avviarla apertamente la discussione su questo mestiere, nato per raccontare ai lettori lontani fatti che non si potevano vedere e sentire, che quindi selezionava persone che prendevano un impegno, quello di vedere e sentire per loro, e a loro raccontarlo, il più fedelmente possibile. Oggi -sembra dire l’evidenza dei fatti- non è più così, le occasioni di sapere e vedere si sono moltiplicate per milioni, ognuno può accedere ad archivi e dirette, può scrivere e lanciare in rete le sue parole, mettersi in contatto, protestare, proporre, se qualcuno lo sente. Già perché il tratto distintivo di questa epoca, lo dicono da anni studiosi -bello l’ultimo libro di Gillo Dorfles Horror pleni, la (in)civiltà del rumore-, lo si capisce da soli camminando per strada, non è la scarsità, la mancanza di messaggi ma il suo contrario, l’abbondanza di stimoli informativi che sempre più si trasforma in frastuono indecifrabile. Dunque oggi è in questo mare in tempesta che si muove quello che resta del giornalista, su barche che per non affondare sono un cantiere in perenne e affannoso rinnovamento. Così il New York Times proclama che fra qualche anno non stamperà più su carta, sarà solo su internet, la BBC programma di trasferire tutti i programmi sulla rete, non passa giorno che non si annunci qualche mirabolante cambiamento per cavalcare l’onda minacciosa sulla quale già ora navigano milioni di persone, pronte a scovare e rilanciare notizie e filmati che provano a raccontarci il mondo. Il punto forse sta proprio qui. Tanta è la frenesia di adeguarsi alla nuova era, alla velocità e all’immediatezza che essa impone, che ormai anche i media tradizionali, giornali e tg in testa, anziché cercare, capire, verificare, sempre più spesso accettano la logica del ‘copia incolla e fai girare’; così il filmato di ‘you tube’ va in prima pagina, il blog viene ripreso in fretta e il frullatore viaggia al massimo senza fermarsi mai. Non è certo una via d’uscita ma verrebbe voglia di proporre un marchio doc all’informazione, un VOSO, “visto con gli occhi sentito con le orecchie” per distinguere un articolo da uno sfogo, il suono dal rumore. Semmai questo è l’impegno che dovrebbero prendersi tutti, giornalisti vecchi e nuovi, con o senza Ordine, davanti alla sfida di questo tempo: esco, vado a vedere, provo a raccontarlo, il più fedelmente possibile. Poi vinca il migliore. (da DNews )