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lunedì 31 marzo 2008

Noi il Tibet e la Cina

Sarà un romanzo a puntate la storia del Tibet e della Cina, un giallo in crescendo almeno fino all’agosto di quest’anno. Poi gran finale e copie al macero ma per ora è lì che tiene tutti sulla corda. Intanto perché i personaggi sono avvincenti, il Dalai Lama che prega e lancia appelli al mondo, i monaci in tunica rosso bruciato che prendono bastonate dalla polizia (e qualcuno più giovane risponde anche) e poi perché c’è il gigante che davvero è diventato l’incubo del mondo e da qualche anno ormai lascia tutti stupefatti, da qualunque lato lo si guardi, qualunque sia il punto di vista. I balbettii e i tentennamenti che governi e paesi hanno quando devono confrontarsi con la Cina, fossero i dazi per fermare le invasioni commerciali o le proteste per i diritti umani, sono ormai rivelatori di un complesso d’inferiorità che va molto oltre il realismo politico o il velleitarismo impotente di fronte al colosso da più di un miliardo di uomini e miliardi di dollari investiti dovunque. C’è qualcosa di più inquietante nell’Occidente che si ferma e barcolla dinanzi alle posizioni di Pechino, quasi il timore di ammettere che la Cina possa essere in realtà nient’altro che la prossima puntata del mondo, quella che ha portato a sintesi brutale le ideologie che ci hanno dilaniato il secolo scorso e che invece, tra i grattacieli di Shangai e la diga delle Tre Gole, sembrano oggi risorgere a nuova e devastante vita. Perché -proviamo a dirlo- la Cina ormai non è più soltanto l’ultimo dei grandi stati comunisti ma è forse il primo enorme prototipo del capitalismo che sta vincendo, quello che in nome di scelte pianificate da oligarchie senza controlli, decide del futuro di tutti, cinesi e resto del mondo. È questa la fascinazione del gigante, che tutti trattano con prudenza e una sacca gonfia di retropensieri. Vuotiamola la sacca e scopriremo per esempio che molti sognano ad occhi aperti la capacità di decidere che la Cina esibisce in tema di grandi, sarebbe meglio dire gigantesche, opere pubbliche. Non c’erano comitati nei villaggi delle Tre Gole quando un milione di persone hanno dovuto abbandonare le case per far posto all’acqua devastante della diga. Oppure le straordinarie performance dell’economia, una crescita con numeri che da noi si sognano la notte ma lì non ci sono sindacati a discutere orari e contratti. E ancora i consumi invogliati, le mode, gli accessori, in tutto e per tutto simili al nostro mondo, semmai moltiplicati per mille, e di fatto usati per evitare che ci si occupi di altro, pensare per esempio, o distrarsi con le opinioni. E infine sono più di un miliardo, un oceano di consumatori e chissà che non ci scappi un affare, uno scambio, un commercio, anche se solo uno su cento fosse ricco, sarebbe come se tutti i romani e i milanesi fossero milionari. Insomma a guardar bene la Cina di oggi sembra un gigantesco supermercato geneticamente modificato e in continua espansione, senza nemmeno la fatica di quella cosa ingombrante e farraginosa che si chiama democrazia. Ecco perché lascia tutti con mezze parole, al massimo sommessamente la si invita alla moderazione, perché è come se fosse uno specchio in cui si riflettono gli incubi del nostro passato mescolati agli idoli del nostro presente. Lo so che adesso si dirà, ma no non è vero, guarda il Tibet, guarda la rivolta che cresce e che non riescono a imbavagliare. Lo so, spero anch’io che questa volta la straordinaria potenza organizzativa cinese, applicata ai giochi come alla repressione, al mercato come alla censura, agli affari come alla pena di morte, si inceppi per uno di quei casi della storia. Resterà sempre il dubbio che alla fine noi, tra timore e segreta ammirazione, guardiamo paralizzati il gigante perché ha trovato la famosa terza via e però, come direbbe il santone di Guzzanti, è quella sbagliata. (da DNews)

domenica 30 marzo 2008

Avviso


Per parenti e amici. D'ora in poi (e fino a nuovo avviso) la rubrica via posta su Dnews sarà pubblicata ogni lunedi e non più ogni mercoledi. Dunque appuntamento a domani.

mercoledì 26 marzo 2008

Campagne elettorali

Meno di tre settimane e poi sapremo come va a finire. Chi vince chi perde, chi entra chi resta fuori. Noi avremo partecipato con la nostra X su una lista senza nemmeno aver letto un nome, perché come ormai tutti ci siamo detti dappertutto, non serve a nulla leggerli visto che la X non può preferire questo o quel nome, ma solo questo o quell’elenco di nomi e la differenza fra entrare e restare fuori sta nel posto che gli hanno assegnato, il quarto, il decimo e cosi via computando, da quella graduatoria dipende la sua sorte. Grosso modo abbiamo capito che ci sono tre tipi di numeri, i numeri primi secondi o terzi (dipende poi da quante X prende l’elenco) che sono praticamente sicuri di entrare anche se non vanno a bussare a nessuna porta, distribuire nessun volantino, nemmeno uscire di casa devono, solo aspettare i risultati in tv. All’opposto ci sono i numeri ultimi, penultimi e via a salire, nemmeno loro devono fare nulla, sanno già che non entrano, hanno detto sì all’elenco per ragioni varie, nobilissime, meno nobili o fate voi, sorridono agli amici e ai colleghi, facendo capire che è stata una scelta d’affetto, di pensiero ma insomma pure questi alla fine staranno davanti alla tv ad aspettare i risultati senza patemi d’animo. Poi ci sono loro. Difficile parlarne senza un filo di imbarazzo, che quasi trascolora in malinconia. Sono quelli destinati ad una fatica inenarrabile, senza nessuna certezza se non quella di correre, sbracciarsi, dannarsi perchè ogni X guadagnata all’elenco potrebbe fare il miracolo. Sono i numeri traballanti, a rischio, quelli che stanno a cavallo tra l’ultimo nome certo di diventare onorevole e il primo dei maledetti destinati a vedere da fuori il portone che si chiude. Queste settimane sono il loro momento di gloria e dannazione, di vertigine tra il volo e l’abisso. Sono proprio loro quelli che sudano per organizzare i convegni dove (forse) verranno i big, che si prestano alle interviste e ai comizi più improbabili nella provincia profonda. Vi verranno a cercare, questi candidati con i numeri appena sotto la linea di confine, chiedono la X per il simbolo, lo devono fare perché è la loro unica speranza. Parenti amici colleghi forza decidetevi, fate il miracolo. “Se il nostro elenco va forte vinceremo e il paese cambierà” -dicono ad alta voce-, se va forte -pensano ma non sta bene dirlo- anziché tre numeri, magari ne entrano quattro è il quarto sono io, quello che tutti davano per spacciato, quello che al partito guardano con commiserazione ché tanto non ce la farà mai. Parenti e amici, fatelo per loro, anche se non li potete scegliere, scegliete l’elenco, sì, proprio quell’elenco che non sapete chi, dove, come e quando l’ha deciso, con tanto di saluti ai gazebo e alle primarie. Ecco, è così che siamo ridotti.
Poi ci sono i programmi. E qui si potrebbe saltare direttamente nella marmellata dei dibattiti in tv dove, litigando, spesso si ripetono le stesse cose: abbassare le tasse e salvare l’Alitalia, aumentare i salari e risanare i conti pubblici, difendere il Tibet senza dare fastidio alla Cina. E invece no, vi vogliamo segnalare una mail che ci arriva da Londra, quattro ragazzi italiani che sono lì a studiare, peraltro in una delle scuole più prestigiose del mondo la London School of Economics, e che hanno avuto una idea semplice e ingenua al punto tale che, chissà, potrebbe indicare una via. Hanno messo su internet, (quattrogattilse.googlepages.com) diapositive e ragionamenti sui conti pubblici italiani, parlano della differenza tra pressione fiscale e aumento delle tasse, spiegano chi ha guadagnato e chi perso nel corso di questi due ultimi governi. Ci vogliono cinque minuti di attenzione e di silenzio, da soli davanti al computer, e si capiscono molte cose. Un’altra campagna elettorale -almeno quella- è possibile. (da DNews)

mercoledì 19 marzo 2008

I silenzi di Napoli

Quello che colpisce di più è il silenzio, di Napoli. Lo so che non sono titolato, non sono nato lì e non ci vado da diversi anni, forse non è nemmeno questo il giornale giusto per dirlo, perché loro, i napoletani non possono averlo tra le mani e buttarlo via incazzati dopo aver letto ma lo ripeto, quello che colpisce di più è il silenzio. Non ci possiamo rassegnare soltanto alle parole della signora che esce di casa con il sacchetto in mano, incontra il microfono del tg e dice “non ce la facciamo più”, poi indica la montagna di spazzatura che si è formata fuori la porta e lì getta il sacchetto, il suo. Non ci possiamo rassegnare nemmeno ai tentativi del neo assessore al turismo della Regione che da qualche imprecisata fiera rassicura che tutto è a posto e si può andare in vacanza sul golfo. Non sono queste le parole che aspettavamo da Napoli, e non le vogliamo nemmeno dai politici, che speriamo tacciano per pudore. No, quello che colpisce, e spero di sbagliarmi, che qualcosa mi sia sfuggito, è il silenzio di quella città che abbiamo sempre considerato pezzo di corpo e anima del nostro paese. La Napoli degli scrittori, degli intellettuali, degli artisti, uso con sfrontata semplificazione queste parole, sta in silenzio, muta, di fronte a questo ennesimo andirivieni del degrado.
I rifiuti -mi raccontano- sanno benissimo come sparire miracolosamente dalle strade del centro e dei quartieri alti mentre invece si sistemano, si aggiustano in via definitiva nell’altra Napoli, quella che sconfina nell’indefinita provincia di sé stessa, azzannata ogni giorno da camorra e telegiornali che ripetono a tutti noi che non c’è niente da fare. E loro zitti. Non tutti per la verità. Il caso di Roberto Saviano e del suo best seller Gomorra sta lì, incastonato nella casella eccezione, che si è quasi trasformato in un marchio di fabbrica. I suoi interventi, con tanto di copyright, sembrano già dei classici, e quindi sorprendono meno. Poi ci sono quelli che sono andati via dalla voragine di bellezza e fango che impasta insieme questa città. Vecchia storia quella di abbandonare, dal “fujtevénne a Nàpule” urlato da Eduardo fino ai distacchi più dolorosi e meno ricordati come quello di Anna Maria Ortese che nel suo libro più bello e controverso il mare non bagna Napoli, ripubblicato da Adelphi, scriveva “E dopo? Dopo venne il tempo di partire. Partimmo (o morimmo?) a poco a poco tutti…il cortile era là, vuoto e muto. Tutti gli addii erano stai recitati”. La Ortese se ne andò in solitudine e in polemica proprio con gli intellettuali della città che non avevano gradito il ritratto di Napoli, al tempo stesso realista e visionario, che lei aveva dipinto nelle novelle di quel libro. Erano i primi anni 50 e da allora ancora oggi, a dieci anni dalla sua morte, il 9 marzo del 98, si fa fatica a squarciare il silenzio su quella che è considerata, più all’estero che da noi, una delle voci definitive della letteratura italiana del novecento. Forse per questo diventa ancora più prezioso un piccolo libro di Adelia Battista, Ortese segreta, uscito in questa stagione per minimum fax. Cento pagine che raccontano di un insperato carteggio tra la scrittrice e la giovane studiosa che si trasforma poi in amicizia delicata tra le due donne e che permette a noi di riconoscere il dolore dell’isolamento e del distacco vissuto dalla Ortese per quasi tutta la sua vita. “Con il mare non bagna Napoli volevo fare del bene alla mia città, perché mi sentivo parte di essa” racconta in uno degli incontri nel suo esilio ligure di Rapallo e in un biglietto indirizzato al professore della ragazza “chissà che un giorno non venga a Napoli, magari in compagnia di Adelia. Sarebbe un sogno.” A Napoli non riuscì più a tornare. Quante storie racconta il silenzio. (da DNews)

mercoledì 12 marzo 2008

Dimenticare Baghdad

Cinque anni fa, tra inverno e primavera, si bombardava Baghdad. Mai un anniversario sembra così lontano nel tempo, rimosso dalla memoria. Come gesto, come evento si tende a dimenticarlo, si è trasformato invece in una sorta di assuefazione alla morte e alla violenza, in quella città e non solo. A mettere assieme le agenzie di oggi, mentre scrivo, si fa rassegna di un doppio attentato in Pakistan, kamikaze a Lahore culla della cultura e della storia di quel paese, soldati americani uccisi in Iraq, l’Onu che fa il bilancio delle vittime in Afghanistan, ottomila solo nel 2007, millecinquecento civili, attacchi suicidi passati in un anno da 120 a 160; la Gran Bretagna che fa i conti delle sterline spese finora, bruciati dieci miliardi per mantenere soldati tra il Tigri e l’Eufrate e ai piedi delle meravigliose montagne afgane dell’Hindukush, spesa raddoppiata nell’ultimo anno. Solo ad allargare lo sguardo si intravede poi il tragico confine tra Gaza e Israele, i razzi lanciati da una parte, bombardamenti e carri armati dall’altra e ancora, l’instabilità pericolosa del Pakistan e l’enigma iraniano alla vigilia di elezioni tutte da decifrare. Insomma il quadro non è per nulla colori pastello e paesaggi rassicuranti eppure si fa fatica a fare un bilancio, a tirare le somme di quella sventurata guerra che durò tre settimane, a stare agli annunci di Bush, e che invece si è trasformata in un progressivo slittamento delle visioni del mondo, insinuando nella vita quotidiana di tutti l’idea che il peggio può sempre arrivare e che dunque i danni collaterali vanno presi come inevitabili.
Sento già il brusio vivace dell’obiezione. Non è Bush che ha cominciato, non è stato lui ad attaccare. Vero. Nessuno può dimenticare che l’inizio della storia fu l’11 settembre del 2001. Non lo fanno gli americani che ancora oggi, sullo sfondo di tutte le loro discussioni, respirano la polvere e le schegge di quella mattina. Leggere anche solo le ultime pagine de l’uomo che cade il libro che Don DeLillo ha scritto lentamente in questi anni per essere sicuro di afferrare quello che era stato e come avrebbe segnato per sempre la vita di New York, fa capire che ogni archiviazione è impossibile. Per loro e per noi.
Forse proprio per questo, però, fa rabbia ripensare alla sicumera con la quale il comandante in capo di quel paese ferito a morte e i suoi consiglieri sbagliarono, una dopo l’altra, quasi tutte le mosse successive. Non tanto i primi mesi in Afghanistan quando tutto il mondo gli diede mandato di cercare e trovare il responsabile di quella guerra sferrata al cuore dell’America, quanto poi la virata, rivelatasi bugiarda e nefasta, per puntare sull’Iraq. Chi si ricorda non solo le fialette che il buon Colin Powell dovette esibire al Palazzo di vetro per giustificare l’attacco a Saddam ma soprattutto la proterva certezza, rivelatasi tragicamente dilettantesca, che tutto si sarebbe sistemato in pochi mesi, il paese del dittatore trasformato in una base sicura per gli Stati Uniti, da lì avrebbero governato i rubinetti del petrolio e gli equilibri dell’intera regione. Anche ammesso (e niente affatto concesso) che fossero giusti e morali quei piani, così non è andata. Ecco allora, prepariamoci al quinto anniversario di Baghdad, chissà se qualcuno di quelli impegnati a girare il nostro paese, spiegando o stracciando programmi, si ricorderà di parlare chiaro agli amici americani, impegnati a scegliere, almeno loro, il futuro comandante in capo. Prima che ci chiedano altri soldati proviamo a dirgli ad alta voce perchè sentano bene: mai più una guerra così stupidamente ideologica, mai più trascinare alleati senza chiamarli a discutere. Perché combattere il terrorismo è una cosa seria. (da DNews)

mercoledì 5 marzo 2008

Quell'Italia che va a gas

Oggi si riuniscono i signori dell’Opec, con il petrolio sopra i cento dollari c’è poco da scherzare. Fior di analisti sbattono la testa per spiegare chi ci guadagna e chi no, perché quando cresce il greggio è automatico, sale il prezzo della benzina ma il contrario non succede quasi mai. E così tornano di moda i servizi dei tg confezionati al distributore più vicino alla redazione, dettagli delle pompe, mani che si passano euro, e soprattutto automobilisti stressati. Brevi commenti sonori “e chi si può permettere il pieno oggi” oppure “io metto sempre venti euro” e via a raccontare una elementare contraddizione del nostro tempo: siamo tutti legati mani e piedi, ruote e frizioni, a quell’arnese che si chiama automobile. Arnese talmente diabolico che costa sempre di più, sia comprarlo che muoverlo, ma nessuno osa metterlo in discussione. Totem contemporaneo che le ha passate tutte, simbolo di stato o di riscatto sociale, rifugio o bunker per proteggersi dalla giungla metropolitana, basta andare a fare il pieno in un distributore per osservare quanto ha trasformato il mondo. Pensate solo ai dettagli, a quelli che si mettono in fila al “servito”, anche se il “fai da te” è vuoto perchè non sia mai che si dica che uno pensa al centesimo, oppure quelli che vanno di fretta e non sopportano gli altri che davanti a loro si fanno controllare ogni giorno le gomme e lustrare i vetri anche se sono puliti. Insomma il distributore di benzina è davvero uno specchio del mondo. Ma fortunatamente non è l’unico.
Provate ad andare una domenica mattina per esempio, perché non bisogna avere fretta, a fare rifornimento in un distributore di metano o gas (la sigla è gpl) e rischiate di imbattervi in un’altra Italia, anche questa piena di contraddizioni, ma con un tasso di tranquillità più evidente. Non è facile dire se si tratti di serenità vera o rassegnazione, di sicuro l’atmosfera è molto diversa. Intanto chi arriva si mette in fila senza problemi perché fare il pieno (e con il gas si fa ancora il pieno) dura diversi minuti e non si può essere insofferenti. La sosta diventa quasi un appuntamento, in genere si scende dalla macchina e spesso ci scappano anche due parole. Si scopre così che gli italiani che vanno a gas ormai sono una comunità multiforme, molto distante dai luoghi comuni che la volevano relegata solo a commessi viaggiatori e maniaci del risparmio. Loro ci sono ancora naturalmente e si riconoscono dall’esperienza che hanno nel predisporre bocchettoni e prepararsi al lunghissimo rifornimento di serbatoi giganti nascosti nei bagagliai di improbabili berline. Ma si mette in fila anche la giovane madre, femminista da ragazza, con la vecchia Panda recuperata per ragioni di ecologia, la segue una 500 del 64, trasformata ed esibita come una piccola rivincita per chi voleva cancellarle tutte, quelle che andavano a benzina rossa. E poi, naturalmente, ci sono tutti quelli che non hanno potuto fare altrimenti, che non potevano permettersi un’automobile nuova, nonostante tutte le rottamazioni del mondo e gli eco-incentivi pubblicizzati ogni dove. È un’Italia in penombra ma per niente dimessa, che guarda gli spot alla tv dei nuovi modelli che sfrecciano tra deserti e cyber-spazi e poi, per fortuna, fa tutto il contrario. Capita che si passino il secchio e lo spazzolone per pulire il parabrezza, che si informino con calma su cosa sia meglio fare per aggiustarle e renderle meno inquinanti, queste quattro ruote, senza buttarle sempre e comunque, come tutti i megafoni invitano a fare.
Lo so che sono cose che non va bene dire, in un paese dove i partiti litigano su tutto ma non sul totem della crescita e dello sviluppo, sempre e comunque. Ma andate una domenica mattina con quelli che vanno a gas. Non sarà una soluzione ma un po’ fa pensare. (da DNews)