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mercoledì 29 luglio 2009

John e Jett

Conosco John Travolta come tutti voi. Perché ho guardato i suoi film, perché ho visto qualche amico vestirsi e ballare come lui tanti anni fa, perché ho sorriso a rincontrarlo, ironico e straordinario, e fare il verso a sé stesso in altri film, trent’anni dopo. Poi a gennaio di quest’anno quelle fotografie tenere e disperate, mai viste prima, a corredo della tragica fine di suo figlio Jett. I due volti assieme, padre e figlio, sorridente lui, assente ma teneramente abbracciato quel ragazzone rimasto bambino che il suo amore aveva protetto da tutto e da tutti e che infatti noi, lettori e spettatori, non conoscevamo. Muore il figlio adorato e John si dispera, non si rassegna all’idea di aver fatto tutto il possibile ma che non è bastato. Sei mesi sono passati da allora e da qualche giorno sono tornati a parlare di lui. Scrivono “sembra abbia perso il controllo di sé, tanto che è stato notato circolare di notte senza meta e trasandato, intento a riempirsi di cibo”. Lo fotografano col teleobiettivo e si intravede la sua faccia sotto un cappello, “depresso e ingrassato” dicono le didascalie. Approfondiscono poi, forse ha rotto con la sua setta di fede, di sicuro è reduce da fallimenti professionali. Insomma, uno stupido scempio. Per questo voglio augurare a John Travolta, che conosco come tutti voi, un’estate silenziosa e lontana. Abbracciato alle foto del suo Jett. (pubblicato su DNews)

domenica 26 luglio 2009

Guerra e magliette di lana


Ancora titoli cubitali sui soldati italiani nel mirino in Afghanistan. Anche quando -per fortuna- ci sono solo feriti lievi. Che caratteri di stampa dovrebbero usare inglesi e americani?

mercoledì 22 luglio 2009

Oppio, soldati e democrazia

Afghanistan, meno di un mese alle elezioni. Karzai alla prova del fuoco, la coalizione guidata dalla Nato alla prova del fuoco. Un passaggio cruciale per capire la direzione che prenderà il futuro di questo paese. E noi ci siamo in mezzo davvero. Arrivano altri cinquecento soldati, alla fine saranno più di tremila. Quasi tutti dislocati nell'ovest della regione, anche quelli che oggi sono a Kabul li raggiungeranno. E lì i tremila italiani ormai sono in mezzo ad una guerra insidiosa, dove il prezzo di un attentatore suicida viene valutato poco più di mille dollari, ma soprattutto dove gli insorgenti, così li chiamano adesso, sono un miscuglio inestricabile di talebani, mercanti di droga e criminali comuni. "Se ci fossero talebani disposti a trattare" dice il ministro della Difesa La Russa volato a trovare le truppe, "nessuna preclusione ideologica a farlo ma per ora così non è". Resta almeno la consapevolezza comune, da Obama a La Russa, che se si vince in Afghanistan non sarà solo con le armi. Se si vince sarà perchè qualcuno offrirà ai contadini che adesso vivono coltivando oppio comprato dai talebani qualcosa di diverso con cui provare ad immaginare un altro futuro. Parole come ricostruzione e sviluppo peseranno sempre più. Nel frattempo prepariamoci ad un'altra estate rischiosa, perchè l'estate è la stagione perfetta per chi vuol fare la guerra. (pubblicato su DNews)

mercoledì 15 luglio 2009

Seconda vita

”Ad agosto prenderò casa all'Aquila” la frase arriva in mezzo alle considerazioni sulla fame nel mondo e a quelle sul clima che cambia. Torniamo per poche righe all'atto finale del G8 nella caserma di Coppito, a quel Berlusconi soddisfatto e contenuto che tratteggia i risultati del vertice. Ognuno lo giudicherà come crede ma chissà per lui forse è scattata una nuova sfida, quella di immaginare una seconda vita, una vita alternativa, o almeno una estate alternativa. Avrà pensato che al terremoto dell'Aquila deve molto di più di un dovere morale ma forse anche un colpo di destino. Avrà pensato che se i programmi fossero restati quelli che erano si sarebbe ritrovato con i grandi della terra tra i panfili e le spiagge bianche della Sardegna a due passi da quella villa Certosa che comunque la si pensi evoca ormai pensieri almeno problematici. Invece era all'Aquila a portare Obama a emozionarsi tra le macerie. Avrà pensato che adesso è meglio passare le vacanze a correre contro il tempo e a costruire case prima dell'inverno. Avrà pensato che forse la donna da frequentare più spesso è la signora presidente della Provincia dell'Aquila testarda rappresentante di quella gente abruzzese sobria e dignitosa nel dolore e nella rabbia. Avrà pensato che anche se negherà sempre tutto, il destino una seconda opportunità gliela sta dando. Avrà pensato questo, almeno speriamo, che avrà pensato questo. (pubblicato su DNews)

sabato 11 luglio 2009

Truman show, titoli di coda (lunghi)


Ora ci sono le visite guidate. Puoi entrare nella camera da letto di Obama, sederti nella poltrona che ha occupato Sarkozy, salire sul podio dove ha parlato Berlusconi. I grandi studi della mega produzione, vuoti ma non ancora smontati, sono aperti al pubblico. Non si butta niente del Truman show. Tremila giornalisti sono stati per tre giorni a guardare e scrivere in un villaggio ben illuminato in cui sembrava ci fossero i grandi della terra. Li vedevi passare ogni minuto sui grandi schermi, a piedi camminare, sfrecciare sulle automobiline, sorridere alle foto, ma praticamente nessuno li ha potuti fisicamente anche solo a scorgere da lontano, se non negli appuntamenti rigidamente fissati dal protocollo dei rapporti con i media. E' sempre stato cosi risponderanno i veterani dei vertici. Sì ma una novità c'era e stava appunto nel fatto che sembrava che i grandi fossero sempre li, in mezzo a noi. Eravamo invece spettatori e comparse di un grande show ripreso da decine di telecamere, una regia imponente che trasformava tutto in un una grande finta vicinanza. Anche le uscite all'esterno, lungo il percorso delle macerie, in realtà erano rigidamente programmate e non dai cordoni della polizia ma dalla disposizione dei dolly e delle camere fisse. Così piazza Duomo e il palazzo crollato della Prefettura erano il set esterno dell'emozione, in dettaglio e panoramiche, carrellate e primi piani. Totalmente inutili le troupe portate dai telegiornali, non potevano muoversi, dovevano restare nel villaggio, le immagini le prendevi a piene mani dal grande film che in diretta ti scorreva sui monitor. Patinate, bellissime, gratuite. Non solo. L'accoglienza per i giornalisti era totale, seduttiva, rilassante. Due bar sempre disponibili, ombrelloni e poltrone in vimini, prato verde (che lentamente ingialliva però, perchè c'è sempre un buco nella rete) ristorante iperfornito, tutto il necessario per rendere naturale la scelta di stare lì dentro, dalla mattina alla sera tardi, quando i tremila risalivano sui pulmini che li avrebbero portati a sparpagliarsi negli alberghi distanti chilometri da L'Aquila. Già, L'Aquila, proprio la città ragione dello spostamento del vertice quasi nessuno dei tremila l'ha vista dal vero. Perchè faticare per andar fuori, sul monitor passavano le scene in sedicinoni, le lagrime e le emozioni di star e macerie, le strette di mano ai poveri (e benedetti) vigili del fuoco schierati per tre giorni a favore di camera. Insomma l'ho fatta lunga ma la sensazione di una nuova inquetante efficienza nella gestione dei rapporti con i media resta. Anche quando dopo due giorni praticamente senza confronti con la stampa, la telecamera inquadra, nella conferenza finale, la fila dei giornalisti che si rinserrano dietro al microfono aspettando, se ci sarà, il loro turno. E' vero, non ci sono state grandi domande, forse il Truman show aveva prodotto il suo primo effetto.

venerdì 10 luglio 2009

L'applauso


Era andato tutto bene. I giornalisti chiusi nel villaggio a guardare i grandi dai televisori, Berlusconi sobrio padrone di casa, regia ferrea che trasforma piazza Duomo in un set con tanto di dolly dove, una dopo l'altra le star piu o meno consapevoli, Obama, Clooney e stamattina Carlà, riempiono la scena. Peccato per quell'applauso sfuggito alla fine della conferenza stampa quando Berlusconi ha tagliato corto con Repubblica. Non hanno saputo resistere. Ma si sa, le fiction si perdono nei dettagli di edizione.

mercoledì 8 luglio 2009

L'azzardo


Un vecchio detto del mestiere dice “le fatiche del cronista non fanno notizia”. In altre parole non interessa come sei arrivato sul posto, se hai dovuto scarpinare o fare cento telefonate, se hai viaggiato la notte o cambiato dieci voli, la notizia non sei tu, raccontaci quello che vedi. Succede però che qualche volta il posto dove vai, il modo in ci arrivi si mescolano alla notizia stessa, a volte sono la storia stessa da raccontare. È il caso di oggi, dei potenti della terra che si vedono all’Aquila. Lasciamo perdere di cosa discuteranno, le regole della nuova finanza non si stabiliranno certo a Coppito, anche sul clima e lotta alla povertà i passi avanti saranno forse solo centimetri, la storia sta invece nell’idea di vederli riuniti, forse per la prima e ultima volta praticamente affacciati, sulla realtà. Certo in questi tre giorni può accadere di tutto, dal prevedibile caos organizzativo, alle domande scomode e agli imbarazzi ma se invece non accadesse nulla, se il vertice fosse il solito onesto fallimento l’azzardo visionario di aver portato i grandi della terra a discutere in una caserma accanto ad una storica città italiana distrutta dal terremoto segna comunque un punto a favore di chi ha deciso l’impresa. Se poi ci scappa anche l’inquadratura di un’emozione del presidente americano davanti alle macerie da esibire in mondovisione, allora il successo sarà assicurato. Per i problemi ci sarà occasione. (pubblicato su DNews)

mercoledì 1 luglio 2009

Vecchio copione nuovo finale (si spera)

Il primo effetto provocato dalle notizie che arrivano dall’Honduras è stato quello di un improvviso ritorno al passato. I militari circondano la casa del presidente, lo catturano e in pigiama lo costringono ad imbarcarsi sul primo aereo e lasciare il paese. Sembra una storia tirata fuori dal cassetto della memoria, fortunatamente finora senza troppo sangue ma violenta lo stesso, una di quelle che negli anni settanta avevano accompagnato la vita e la politica del continente centro e sud americano. Salvador, Guatemala, Nicaragua, solo per restare ai paesi confinanti in quegli anni vivevano schiacciati da dittature per non parlare di Cile e Argentina, i golpe più tragicamente famosi. In quegli anni alle dittature spesso si contrapponevano movimenti di guerriglia ma una cosa era abbastanza evidente. Gli Stati Uniti, più o meno apertamente, sostenevano i regimi militari, garanzia armata contro la minaccia di possibili sbocchi rivoluzionari. Ora vorremmo dire che una cosa non da poco è cambiata se il presidente esiliato dai militari prima riceve la solidarietà da tutti gli altri suoi colleghi sudamericani eletti democraticamente, poi va a Washington, e da lì annuncia che intende rientrare al più presto nel suo paese, forse già domani. Non sappiamo come finirà la storia dell’Honduras. Sappiamo però che nelle due Americhe, dal nord al sud, il passato sembra passato davvero. (pubblicato su DNews)