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giovedì 16 dicembre 2010

Saviano, Bartleby e gli scarponi


Dove finisce la rabbia e comincia la violenza. Sul filo sottile la discussione dilaga e stavolta senza argini e disparità. Scrive Saviano dalle colonne di Repubblica come scriveva Pasolini dal Corriere della Sera ma a rispondergli questa volta non ci sono solo ciclostili e volantini ma lettere come quelle di un ragazzo del centro sociale Bartleby occupato di Bologna che in un lampo diventano controeditoriali. Fanno la videocronaca i telegiornali ma sono cento e cento i filmati, come quello del poliziotto che con gli scarponi d'ordinanza passeggia su schiena e faccia di uno studente, pronti a smentire ogni tentativo di semplificazione. Questa è la novità della discussione di oggi, non tanto il tema che i ragazzi a ragione sentono come inedito, e gli altri, anche loro a ragione, come ricordo sbiadito da trasformare in monito. La novità sta semmai nella possibilità infinita di raccontare e di documentare immediatamente, con tutti i vantaggi e i rischi che comporta. Anche quello di pensare che siccome si è visto tutto di persona si è anche capito tutto, definitivamente.

domenica 28 novembre 2010

Aspettando Wikileaks

Siamo in tante, formichine sparse in tutte le redazioni italiane, a cercare in questi minuti almeno qualche briciola di quello che è stato definito l'11 settembre della diplomazia mondiale. Le agenzie si tuffano sui "party selvaggi di Berlusconi", i siti on line titolano in rosso e stiamo tutti solo copiando il titoletto scritto in piccolo, sotto la sua fotografia in piccolo, l'ultimo sulla destra, nella copertina del Der Spiegel, o meglio della copia del settimanale già in vendita a Basilea. Altro per ora non riusciamo a sapere. Ora quello che non vogliamo vedere invece è che mentre noi media italiani siamo qui per terra sotto il tavolo di Wikileaks ad aspettare le briciole, cinque giornali stanno comodamente seduti a tavola a frugare tra le leccornie (ammesso che tali siano): Il Guardian, il New York Times, Le Monde, El Pais e il Der Spiegel appunto. Come dire Washington, Londra, Parigi, Madrid e Berlino. E Roma non c'è, non c'è un giornale, un tg italiano. In fondo in questo la scelta di Wikileaks è stata chiara. Siamo un paese minore, inutile nasconderlo, nonostante gli strilli sul complotto, al massimo siamo quelli in basso a destra, nella copertina dello Spiegel. E scusate adesso torno alle agenzie, hai visto mai uscisse qualcosa sull'Italia.

martedì 16 novembre 2010

Gli elenchi di Fazio


Si può dire tutto del programma Vieni via con me tranne che non sia stato un esercizio di stile riuscito. Non era facile costruire una trasmissione sull'idea degli elenchi, antica come i nostri ricordi di liceo, iperfrequentata da geni assoluti come Gaber Gaber, utilizzata da onesti scrittori come Hornby, abusata fino alle filastrocche su facebook. La grandezza di Fabio Fazio e dei suoi autori è stata quella di usarla per svelare con illuminante sobrietà non solo lo stato delle cose italiane ma anche forza e debolezza degli italiani che quegli elenchi recitavano. Così, ad esempio, la ragazza ventenne, albanese e italiana insieme, fulmina in un colpo, con la forza del tempo che passa, le nostre urlate polemiche sull'immigrazione sempre tarate su un eterno presente. Gli elenchi di Fini e Bersani hanno illuminato invece quanta strada c'è da fare ancora. Poi c'è il fuori elenco Saviano. La sua capacita di racconto è magnetica, puoi amarlo o odiarlo ma difficilmente riesci a staccarti dai suoi occhi, dalle sue mani, dalle sue parole. Anche lo spaesamento di un comico di razza come Paolo Rossi, per molti il punto debole della puntata di ieri, non fa che confermare la novità di tutto quello che c'era stato prima e che ci sarebbe stato dopo di lui. Fino al lusso di Toni Servillo, volto icona, sintesi del meglio che il racconto italiano oggi può offrire di sè al mondo, che entra in scena solo per sussurrare vieni via con me. Andiamo allora che forse, almeno in tv, una strada si intravede.

domenica 24 ottobre 2010

La monnezza, le mamme e i tric e trac


La cosa nel merito è terribilmente seria e solo uno poteva dire che in dieci giorni tutto si risolve. Ma qui ci occupiamo di dettagli. C'è qualcosa di ineluttabilmente napoletano nella fantasia con la quale a Terzigno sono riusciti a dividersi la stessa piazza. Il giorno, dedicato ai genitori che vogliono proteggere la salute dei loro bambini e la notte, con le battaglie degli ultrà incappucciati contro la polizia in assetto anti sommossa. La ciliegina poi, i fuochi d'artificio per fare guerriglia ad uso e consumo delle tv. Sia detto con tutta la simpatia e il tifo per le mamme che difendono i loro piccoli, nemmeno a Hollywood c'erano arrivati.

martedì 21 settembre 2010

Auguri ad Atene


Un brindisi all'Acropoli che resiste all'arrivo dei barbari camionisti. Hanno ricevuto le licenze quarant'anni fa dal colonnello Papadopoulos, durante la giunta militare e se le passano tra loro come fossero una casta. La loro protesta non é la stessa dei lavoratori che a primavera riempivano piazza Syntagma per dire che la crisi finanziaria la dovevano pagare quelli che l'avevano provocata. I loro cortei, sui TIR coi clacson assordanti, difendono solo un ingiusto privilegio e ricordano quelli dei camionisti cileni che boicottarono
il governo di Allende e aprirono la strada al golpe militare.

sabato 21 agosto 2010

Grazie a tutti. Soprattutto a Pasolini.


Premessa, facendo clic su ogni città dovrebbe "partire il relativo servizio". Dovrebbe.

Adesso che il nostro tratto della lunga strada di sabbia è finito non ci resta che ringraziare. A Sperlonga gli amici americani e inglesi di Maria Clara che da cinquant’anni si godono il paese sapendo di averne visti passare tanti, “anche Cohn-Bendit è stato qui un anno, a pensare” ci hanno detto, con l’ironia che solo l’età può dare. A Napoli Rosaria, alla quale chiediamo scusa per aver tagliato la frase in cui diceva che gli scugnizzi non ci sono più, perché il giorno dopo li abbiamo trovati, sia pure rovinati dalla tv. A Ischia la signora Teresa, per la sua risata quando ricorda i maiali che sbucarono sotto i piedi di Pasolini e ammette che erano quelli del suocero ma anche per gli spaghetti allo scoglio che più scoglio non si può. Partendo per Capri i due netturbini del Molo Beverello che si davano la voce uno sull’altro per leggere la frase di Pasolini sull’invasione dei turisti “sacrileghi”. Uno dei due non capiva il significato della parola e l’altro gli ha spiegato “sacrileghi, che fanno i sacrifici, si sacrificano per andare a Capri!” e noi non abbiamo avuto il coraggio di controbattere, perché in fondo è la spiegazione giusta. Poi la signora Giovannina che quando siamo entrati a casa sua era in desabillè e ci ha chiesto un secondo per rimettersi in ordine. Ad Amalfi il professor Luiz e sua moglie Tatiana che non ci hanno pensato due volte a leggere Pasolini e che ancora adesso cercano di vedere i servizi su internet ma ci scrivono che il sito della RAI è un gran casino e non gli possiamo dare torto. A Ravello Sara e Francesca che ci hanno fatto da intermediarie con Vincenzo il giardiniere ex attore pasoliniano che sembrava diffidente ma era solo timido. A Maratea Dora ex operaia dei lanifici ormai chiusi che pur avendo perso il lavoro non si è persa d'animo, Guglielmo e sua moglie Diana, che avevano tutto il diritto di diffidare di chi gli chiedeva notizie dei disastri fatti al sud dalla loro famiglia di industriali del nord e che invece ci hanno accolto con garbo e semplicità come fanno tutti i giorni con tutti, nel loro piccolo ritrovo sul mare. A Siracusa Milori e la sua amica, restauratrici giapponesi che parlano benissimo l’italiano (pensate a restauratori italiani che parlano benissimo il giapponese e poi ne riparliamo), Paola che lavora al Jolly e che ci ha indirizzato verso il fiume dei papiri e poi Corrado il barcaiolo che con i suoi fratelli combatte una battaglia contro l’abbandono e l’oblio di quelle meraviglie. A Porto Palo i pescatori e i ragazzi che ci hanno accolto come fossimo amici da sempre. E infine tutti quelli che abbiamo incontrato a Cutro, gli anziani del centro sociale, il sindaco, i vecchi militanti, la famiglia del partigiano Rosario che ci hanno permesso di raccontare il vero finale della storia del paese dei banditi.
E soprattutto Giorgio, il pastore rumeno che ha quattrocentocinquanta pecore da pascolare e non ha tempo per queste nostre scemenze.
Poi siamo tornati in fabbrica. Qui ringraziamo tutti quelli che hanno lavorato con noi, dal direttore Mario che ha avuto una grande idea allo specializzato Franco che ha guidato per non sappiamo quanti chilometri, dai montatori Marco, Marta e Lorenzo che hanno tradotto in due minuti quello che forse volevamo dire, a Claudio e Carlo, Maria Grazia e Franco che hanno condiviso prima e dopo di noi la lunga strada di sabbia, Tommaso, Cinzia e gli altri che ci hanno seguito negli ultimi metri, dalla saletta alla messa in onda.
Un piccolo grande regalo quello che ci avete fatto tutti e che speriamo di avervi in parte restituito.
Non ho usato il plurale a caso perché, nonostante non lo abbia consultato, so che posso firmare questo biglietto con Andrea, che ha letto Pasolini con me prima di cominciare a girare ogni sequenza. E poi, se vuole, smentisce.

domenica 20 giugno 2010

Vatican style


C'è qualcosa di francamente sgradevole nell'attacco dell'Osservatore Romano a Saramago post-mortem. Soprattutto nei giorni del cardinale Sepe e dintorni.

mercoledì 16 giugno 2010

La solitudine di Pomigliano

Per favore evitare di fare sproloqui storici sull'accordo per lo stabilimento Fiat. Ci manca solo questo agli operai di Pomigliano, la beffa di sentirsi protagonisti di una svolta epocale con la pistola puntata alla testa.

giovedì 27 maggio 2010

Una, nessuna, centomila


La storia delle undici, dieci, varie Province da abolire a caso con la manovra, ma forse no, il "piuttosto aboliamole tutte" ma un'altra volta. Come si fa a stargli dietro, a questi statisti?

lunedì 24 maggio 2010

La faccia da mettere


Lui proprio non ce la fa, gli si storce il naso, gli trema la bocca, gli si imperla la fronte. Così per annunciare i sacrifici ha dovuto metterci la faccia Gianni Letta.

venerdì 21 maggio 2010

I liquidatori

Ora va bene tutto, l'antipatia, l'avversione politica, il puro e semplice rosicare ma vedere schierate tante penne a discettare della liquidazione milionaria di Santoro è sintesi perfetta ed aggiornata del concetto di ipocrisia. Soprattutto quando il giorno prima e il giorno dopo si continuerà a invocare il mercato, il talento, la concorrenza o la morte per la vecchia tv di stato.

lunedì 17 maggio 2010

L'ultimo biglietto per DNews


Questo biglietto non sarà pubblicato su DNews, come da due anni a questa parte, perchè DNews come l'avevo conosciuta non credo ci sarà più. Lo scorso veek end, a mercati chiusi si direbbe oggi, a giornale chiuso in realtà, hanno licenziato in tronco Antonio e Gianni Cipriani i due direttori. Che poi erano quelli che lo avevano inventato, che ancora prima avevano rinnovato con Epolis la formula della free press in un paese complicato come l'Italia. Ragioni di mercato, ragioni politiche non so, quello che so è che con i fratelli Cipriani mi ero inteso subito, poche parole erano bastate per collaborare sia la prima che la seconda volta, nessuna parola era più servita in quasi quattro anni di totale libertà di espressione garantita a me -che sarebbe poca cosa- ma soprattutto a qualche decina di giovani redattori che hanno creduto in loro. A tutti loro, i due direttori e la redazione, va il mio abbraccio e la mia speranza. Io lo so, prima o poi, carta, web, megafoni o quello che sarà, ci rincontreremo, perchè la strada è quella e va fatta insieme. (non pubblicato su DNews)

mercoledì 5 maggio 2010

Le strade di Atene


Lo dico subito, la Grecia non è un paese perduto nè a ferro e fuoco. Forse sarò completamente smentito dalle notizie che sentirete oggi arrivare da Atene, uno sciopero generale che fermerà trasporti, scuole, fabbriche, così titoleranno i giornali e tg, l'incubo della violenza e degli scontri, la capitale paralizzata dalla paura. E su questa storia della violenza che voglio spendere due parole. Quella nelle strade di Atene ha un che di teatrale e sceneggiato. Copioni scritti per telecamere e fotografi. Ho visto un corteo di professori che davanti alla polizia schierata facevano largo a qualche decina di ragazzi nero vestiti che non vedevano l'ora di entrare in scena. Lanciano bottiglie, insultano, la polizia reagisce una volta si una no, ci scappa una molotov, un paio di lacrimogeni e voilà il gioco è fatto. Foto, titoli e video on line. Ora la domanda e', noi giornalisti, dobbiamo seguire questo copione rituale o provare a raccontare un paese stordito che non sa quello che l'aspetta? Va bene, dicono nelle redazioni centrali, raccontate quello che volete ma cominciate dalle botte, dal fumo, se poi c'è anche il fuoco allora stiamo a posto. E così uno sta in mezzo a un cerchio che nessuno prova a spezzare. Lo sanno bene i ragazzi nero vestiti che se un giorno si ritrovassero soli, senza nemmeno un fotografo al seguito, piangerebbero disperati come gli infelici bambini che sono. (pubblicato su DNews)

giovedì 22 aprile 2010

Il postino aggrega sempre due volte

Complimenti a il post un aggregatore ben vestito da giornale. Poi ci sono le suole delle scarpe da consumare, ma quella ormai è una vecchia storia. Da anziani.

mercoledì 21 aprile 2010

Di nuvole, vulcani e giardini

Avremo già abbondantemente discusso al bar sugli effetti della nuvola vulcanica che dalla lontana Islanda ha paralizzato il mondo contemporaneo. Chi avrà detto della fragilità del nostro sistema di trasporti, chi si sarà spinto a riflettere sulla precarietà del nostro modo di vivere perennemente in bilico tra la velocità e la paralisi, chi avrà semplicemente cercato di tornare a casa nella maniera più tranquilla possibile. A me per esempio è capitato di avviarmi da Cracovia in Polonia dove ero a raccontare i funerali del presidente Kacinzky. Ho usato finora automobile fino a Vienna, treno fin qui - e vi scrivo adesso dall’aeroporto di Klagenfurt in Austria – ora forse aereo in direzione dei cieli italiani. E però in questo lento ritorno a casa il pensiero più volte è tornato ad un piccolo giardino polacco che ho visitato e al suo proprietario, un biologo dell’accademia delle scienze di Cracovia ora in pensione che da anni ha deciso di dedicarsi al lento divenire delle piante e dei fiori. Il modo in cui raccontava il passare del tempo visto attraverso i rami del suo abete argentato, ogni anno c’è un giro di rami nuovi, oppure come ti lasciava immaginare davanti ad uno scarno reticolo di arbusti senza foglie l’ombra e i frutti che verranno, pere da cogliere in estate semplicemente allungando una mano dal tavolo all’aperto. Ecco avrei detto questo, nella discussione al bar sulla maledetta nuvola del vulcano. (pubblicato su DNews)

mercoledì 7 aprile 2010

Primo premio un motorino


Si accettano scommesse solo per pochi spiccioli perché il gioco sarà breve ma sicuramente avvincente come una caccia al tesoro. Da ieri sono iniziati i preparativi ma la data da segnare sul calendario è quella del 15 di aprile quando scatterà la corsa all’acquisto scontato. Si prevedono file di consumatori ai negozi di elettrodomestici e ciclomotori, più difficile scovare gli appassionati di motonautica. Ma quanti riusciranno ad aggiudicarsi il bonus sul motorino o sulla lavastoviglie, ce la farà poi qualcuno ad accedere allo sconto per rottamare addirittura una intera cucina, e come prevedere infine quanto sarà lunga la fila per acquistare motori fuori bordo per la barchetta di casa? Ora non possiamo noi elencarvi le istruzioni dettagliate per accedere agli incentivi annunciati per rilanciare economia e consumi, ci servirebbe una mezza pagina di giornale grande formato, quello che possiamo fare adesso è esercitarci in una divisione semplice ma insidiosa: hanno stanziato trecento milioni di euro per l’operazione, gli italiani sono più o meno sessanta milioni, se tutti volessero qualcosa, toccherebbero più o meno cinque euro a testa. Ma il governo ha deciso che solo i più veloci e più pazienti, quelli abituati a resistere alle file ma anche capaci di esibire il documento giusto al momento giusto, solo quelli vinceranno. Perché lo sconto te lo devi guadagnare. Come una caccia al tesoro. (pubblicato su DNews)

mercoledì 24 marzo 2010

Pane acqua e bambini

Fossimo un paese normale in una campagna elettorale normale che deve eleggere amministratori di città, province e regioni magari potremmo appassionarci a storie come quella che arriva da un paesino in provincia di Vicenza, Montecchio Maggiore. Succede in quel di Montecchio che ieri l’altro nell’asilo comunale all’ora di pranzo, con i bambini seduti forchette e coltelli in mano, si scodella pastasciutta, secondo e contorno per tutti meno che per nove piccoli i quali si vedono depositare sul piatto un pezzo di pane. “Disposizioni del Comune” dicono all’asilo “le famiglie dei ragazzi non pagano la retta della refezione ormai da mesi” e quindi ecco l’avvertimento, pane e acqua fino a nuovo ordine. Ora immaginate la scena, il tuo vicino di banco inforca i bucatini e tu, occhi lucidi e pane nel piatto. Per fortuna, a quanto dicono le cronache, è scattata più o meno spontanea la solidarietà e i bambini con l’aiuto delle maestre si sono ridivise le porzioni offrendo agli sfortunati un poco del loro e così per quel giorno è andata. Ma il problema, a parte l’inutilmente crudele tentativo di soluzione, resta tutto lì, cosa sono i servizi sociali in un paese civile, come la crisi morde famiglie e comuni, che alternative ha un buon amministratore. Ecco, fossimo un paese normale avremmo avuto faccia a faccia dei candidati anche sulla storia di Montecchio, invece di dare i numeri su Piazza San Giovanni. (pubblicato su DNews)

domenica 21 marzo 2010

Monteverde vecchio

Oggi davanti al Piccolo bar di piazza Ottavilla una signora anziana e con qualche problema di memoria di ritorno dalla messa chiede ad un signore che abitualmente presidia il locale "mi scusi ma il cappuccino l'ho già preso oppure no?" "No signora, glielo posso garantire, questa mattina è andata diretta in chiesa" "grazie" risponde la signora e contenta entra ad ordinarlo.

mercoledì 10 marzo 2010

Le loro elezioni e le nostre

Già l’altra volta, qualche anno fa, quando gli uomini e soprattutto le donne irachene si misero in fila sfidando razzi e bombe per andare a votare provammo un senso di orgoglio e di imbarazzo misto assieme. Il loro coraggio a sfidare la paura di morire per andare deporre la scheda nell’urna, quelle foto sorridenti in cui mostravano il dito bagnato d’inchiostro, prova inconfutabile del voto che li rendeva anche bersaglio della violenza, ci investiva in qualche modo di responsabilità. Avevano scelto di provare la nostra strada, quella della democrazia, pur avendo ancora soldati stranieri per le strade e una guerra portata in casa che, giusta o sbagliata, ha fatto morti a migliaia. Questa volta le scene si sono ripetute, le file, le dita inchiostrate, i volti sorridenti ma anche concentrati a leggere per bene nomi e cognomi dei candidati sulle liste nei seggi. Come se questa seconda prova di democrazia fosse più sacra della prima. Ecco allora che cresce in noi l’imbarazzo. Probabilmente non sapranno nulla di decreti salva liste, di panini fuori tempo massimo, dello scempio barbarico che qui si prova e si riprova a fare delle regole di quella stessa democrazia che le donne e gli uomini d’Iraq hanno scelto guardando anche a paesi come il nostro. Certo sarebbe difficile spiegare loro che cosa è il Tar del Lazio, meglio sperare che questi giorni italiani passino inosservati. Almeno a Bagdad. (pubblicato su DNews)

mercoledì 3 marzo 2010

Lettera a quelli delle Tribune


Cari colleghi adesso tocca anche a voi.
Ieri, nonostante tutto, sullo stesso palco, a dire la loro, c'erano Michele Santoro e Bruno vespa. Noi eravamo giù assieme a tanti o pochi altri a fare quello che potevamo per denunciare il rischio che corriamo tutti. Essere cancellati come fastidiosa ipotesi di una opinione pubblica che ancora prova a fare domande alla politica.
Se davvero toccherà a voi sostituire i programmi di informazione con le interviste ai partiti allora ricordatevi quello che sostituite. Potete rispondere, "no grazie". Potete aggiungere "se volete comunicate i vostri programmi senza contraddittorio fatelo da soli", oppure "se volete domande del tipo 'che progetti avete per l'Italia?' chiamate i vostri portavoce".
Scegliete voi la formula o inventate quella che volete, ma sappiate che è il vostro momento e che, se Vespa e Santoro sono riusciti a salire sullo stesso palco, contiamo un poco anche su di voi.

Angelo Figorilli

p.s. questo vale anche per i colleghi dei giornali che di buon grado si prestano a riempire le sedie delle tribune elettorali. Quanto a noi dei telegiornali, proviamo, in questo mese di passione, ad elencare i fatti. Per le domande vere prima o poi verrà il tempo e la speranza ci fa ancora compagnia.

lunedì 1 marzo 2010

Brividi


Le immagini dei carri armati per le strade del Cile. E' vero, andavano ad impedire i saccheggi, a riportare ordine e aiuti nelle città sconvolte dal terremoto. Ma facevano impressione lo stesso.

venerdì 26 febbraio 2010

Surrealismi


Nella sentenza del processo Mills che prescrive il reato di corruzione si condanna comunque l'avvocato inglese a pagare 250mila euro per aver recato danno all'immagine dello Stato. A chi? A Palazzo Chigi.

mercoledì 24 febbraio 2010

Managers


Non è mai facile scrivere di chi decide improvvisamente di farla finita. Non è facile perché c’è sempre l’ombra di quello che si annida nella testa, nel cuore delle persone e che non vediamo, non sentiamo, non possiamo sapere. Qualche volta però riusciamo a intravedere. Come nel caso di Paolo Trivellin, piccolo imprenditore di Noventa Vicentina, provincia di Padova, titolare di una ditta edile, la Tri-intonaci che si è tolto la vita e ha scritto quattro lettere. Due ai figli, una alla compagna e l’altra al socio perché da sei mesi non riusciva a pagare i suoi venti operai, perché tutto gli era crollato addosso, i debiti, la crisi, il fantasma del fallimento. Nella lettera al socio, Paolo si assume tutte le responsabilità degli errori, dei rischi, delle scelte sbagliate. Si scusa per questo, si scusa perché la sua ditta non era più in grado di andare avanti e lui non aveva saputo guidarla. Questa notizia arriva mentre altre rimbalzano, mandato di arresto per Silvio Scaglia, considerato uno dei manager più brillanti di questo paese, almeno nelle cronache dorate degli anni scorsi, che delle telecomunicazioni, delle fibre ottiche, delle bande larghe aveva fatto il suo regno indiscusso. Ora l’accusano di riciclaggio per milioni di euro e certo saprà difendersi. Resta la malinconia per le lettere di Paolo, un manager che faceva intonaci, che non riusciva più a pagare i suoi venti operai e che se ne andato chiedendo scusa. (pubblicato su DNews)

domenica 14 febbraio 2010

Quel giorno che provammo a salvare il Balilla

Questa è una storia di tanti anni fa, scritta su "il vaschione" un foglio della mia città che tanto mi ricorda il tempo che scorre ma non passa e non ho ancora deciso se sia un bene oppure no.

“Oggi sul giornale Il Centro ti citano per il tentativo di conservare il cinema Balilla. Ieri l’altro è crollato il tetto sulla platea. De profundis”.

L’sms arriva di prima mattina, secco, mentre sto facendo colazione. Devo sbrigarmi, devo andare in redazione, Saxa Rubra, dall’altra parte di Roma. Ormai questo è un percorso stradale che conosco a memoria. Come a memoria ricordo quel giorno, l’anno davvero non saprei, in cui partimmo per salvare il cinema Balilla. Era un giorno importante davvero, avevamo preparato tutto per bene, bisognava solo portare il progetto e incrociare le dita. Non ero solo, mi accompagnava il mio amico Paolo Di Fonso, che già lavorava sodo, a quell’epoca, nel distributore di benzina del padre ma sotto sotto ancora pensava, a quell’epoca, che prima o poi avrebbe fatto altro.

Andare a Roma a incontrare Renzo Rossellini, fratello di Isabella, figlio di Roberto, già la cosa in sé metteva soggezione, in più doveva essere anche un viaggio d’affari, almeno per come li concepivamo noi gli affari, in quegli anni ottanta dove si mescolavano sogni, politica, ingenuità e primi tentativi di cercare un lavoro. Lui allora era diventato presidente della Gaumont Italia, succursale della multinazionale cinematografica francese, nemica giurata delle grandi case americane, ispirava forti aspettative soprattutto in quelli affascinati dal miscuglio di cinema indipendente e voglia di tenere accesa, almeno nella cultura, un’idea se non di rivoluzione, almeno di cambiamento, il rifiuto a mangiare sempre più e per sempre quello che il “sistema” (allora una parola così veniva usata per indicare in sintesi tutte le malefatte vere o presunte del libero mercato, oggi la si usa con più precisione per fortuna, come nelle inchieste sulla camorra) aveva cucinato per tutti. In più, dalle nostre parti, il rischio era addirittura quello di un digiuno totale, visto che il “sistema” aveva deciso di chiudere definitivamente mense e rubinetti, perché da tempo ormai, le tre sale cinematografiche della città avevano serrato ben bene i battenti. Il Pacifico, storico cinema dell’importante famiglia omonima, la sala Antoniana, dei frati omonimi e il Cinema Balilla, piccolo, piccolissimo locale, dal nome rivelatore almeno dell’età, che fu il primo a sprangare porte e spengere proiettori.

Dunque la situazione è questa, una utilitaria viaggia verso Roma con due delegati di una cooperativa giovanile che sognano un intervento, a metà tra il mecenatismo e l’innovazione intravista, che possa fare rinascere almeno il più piccolo dei tre schermi della città.

Qualcuno si chiederà, ma perché Renzo Rossellini avrebbe dovuto ascoltarli, e soprattutto come erano riusciti ad avere un appuntamento con lui? Ho detto delegati di una cooperativa giovanile, in realtà la storia di quel gruppo di ragazzi è più lunga e complicata, attraversa la politica e la provincia, nel suo piccolo la storia della città, Sulmona, e di quegli anni, specchio di storie più grandi e anche più difficili che si vivevano in tutto il paese. In quel periodo i vecchi partiti erano tutti lì, a Roma come in periferia, c’era il P.C.I., c’erano i democristiani e i socialisti, i liberali e i repubblicani, e poi c’erano quelli della sinistra extraparlamentare. Una galassia di facce, striscioni, sedi, volantini e ciclostili, che a ricordarla adesso non sai deciderti se fa più nostalgia o tenerezza. In mezzo a questa galassia di eskimi, sciarpe, megafoni e ideologie sommarie ma appassionate, a metà degli anni settanta, nacque una radio. Una scelta coraggiosa oltre ogni immaginazione per quelli che la fecero pensando fosse solo una continuazione del volantino con altri mezzi. Perché invece scoperchiò un mondo, quello della comunicazione, che oltre a essere una prateria sterminata, li mise di fronte a obblighi, doveri e turni, prove inedite anche per la loro sperimentata formazione di militanti della politica. Insomma la radio pretendeva che si stesse lì, ore al giorno, tutti i giorni, a ragionare, a dire cose e formulare opinioni anche quando, come dopo brucianti sconfitte elettorali, non si aveva nessuna voglia di comunicare ad alcuno alcunché. In più la radio non aveva un nome qualunque, perché si chiamava Radio città futura, come quella storica, bandiera della sinistra romana e in qualche modo, di quella storica, fu una specie di succursale, almeno nei primi tempi. Lo slogan “una, dieci, cento RCF” divenne praticamente lettera morta quasi subito ma una radio in provincia, sorella minore di quella fondata nella capitale, ci fu e fu quella dei ragazzi di Sulmona. Addirittura i romani ci regalarono il trasmettitore e fu in quella occasione, la consegna dello strumento fondamentale per avviare l’impresa, che i ragazzi abruzzesi incontrarono per la prima e forse unica volta Renzo Rossellini, allora uno dei fondatori della radio, assieme all’editore Giulio Savelli.

Dopo i primi mesi la collaborazione si allentò, la radio di provincia si ritrovò per mare da sola ma sempre sventolando la bandiera di un nome importante, almeno in quelle acque. E da sola sperimentò rotte creative per sopravvivere, stamparono un “radio scritto” con l’intento di ampliare il dialogo tra gli ascoltatori ma soprattutto di racimolare qualche soldo di pubblicità, si inventarono programmi radiofonici in collaborazione con la sede regionale della Rai; alla fine, e siamo quasi arrivati al viaggio verso Roma, si incrociarono con la disastrosa crisi dei cinema della città. La chiusura del Pacifico soprattutto fu il colpo letale che si doveva evitare, così i ragazzi della radio si inventarono una soluzione che dà l’idea dell’aria che si respirava a quel tempo. Si candidarono a riaprire una delle sale, convinsero i frati ad accettare il tentativo, proposero ai lavoratori licenziati dal Pacifico di riavviare le proiezioni. Ci furono faticose trattative con il sindacato, riunioni surreali nelle quali ci chiedevano di assumere i licenziati, a noi che non avevamo mai visto uno stipendio in vita nostra e che semplicemente volevamo mettere in piedi una specie di cineclub con una vaga, vaghissima idea di far tornare i conti. Comunque sia, per qualche mese il miracolo ci fu. Riaprì la sala Antoniana, ribattezzata significativamente “Saint Anthony hall”, i lavoratori ricominciarono, Teresa la cassiera a fare biglietti, Michele la maschera a staccarli, e gli altri due a far girare il vecchio proiettore dei frati. Noi della radio, che intanto boccheggiava già di suo, gestivamo la baracca infilandoci sopra velleitari ma anche sorridenti pennacchi culturali, locandine fotocopiate con il programma e le recensioni dei film, insomma tutto l’armamentario di una storia giovanile di quegli anni, compresa una sconclusionata convivenza tra “operai” del cinematografo e “studenti” da cineclub che ovviamente non poteva durare.

Il “sistema” delle sale di allora (quello di oggi non so, ma immagino) non prevedeva infatti la sopravvivenza di esperienze piccole, tantomeno se venate da spontaneismo sia pure appassionato. Ce ne accorgemmo subito quando andammo a trattare con le case di distribuzione le “pizze”, cioè i film da noleggiare. Esisteva un sistema, questa volta è appropriato dirlo, che assomigliava all’idea di un treno, dove la locomotiva era il film importante, di cassetta, che tu volevi proiettare e i vagoni che erano quei titoli che le case ti imponevano di prendere, se volevi la locomotiva. Insomma il treno si affittava per intero, o niente.

Ecco, le cose stavano più o meno così quando i due ragazzi viaggiano verso Roma dopo aver convinto a telefono, in virtù dei passati radiofonici comuni, Renzo Rossellini ad ascoltarli almeno per un po’, nella sede italiana della Gaumont. Volevano prospettargli il progetto di riaprire la piccola sala del Balilla, trasformarla in una “flexi-hall” (l’inglese era già allora una vera mania) che potesse smaltire i vagoni, ospitare pellicole d’autore e anche concerti e spettacoli (in quegli anni i ragazzi della radio si erano cimentati, con alterne fortune ma anche qualche indiscutibile soddisfazione nel settore della musica dal vivo).

Accadde però che in assenza di Tom Tom e di telefonini, non ancora inventati, i due prima vagarono alla ricerca del numero civico giusto di una via scritta come indirizzo su un foglietto, poi si decisero a cercare una cabina per telefonare alla segretaria di Rossellini e chiedere spiegazioni, alla fine si sentirono dire che quella era la via sbagliata e che da lì ci sarebbe voluta almeno un’altra ora per raggiungerli e che il presidente non aveva tutto quel tempo e che quindi l’appuntamento era di fatto rinviato, a data da destinarsi.

Voglio solo aggiungere una postilla. Se tutto fosse andato per il meglio, se davvero fossimo riusciti a riaprire quel vecchio piccolo cinema, avevamo già pronto il nuovo nome. Volevamo dipingere la facciata di un preciso colore pastello e poi come cerimonia di inaugurazione, avremmo smontato davanti a tutti le prime due lettere dell’insegna e sistemato un accento sull’ultima. Lo spettacolo del cinema “Lillà” poteva cominciare.

venerdì 12 febbraio 2010

irene e la neve

Irene è nata in Egitto. vive a Roma da 15 anni. Vende i fiori sotto casa mia. E non aveva mai visto la neve.

mercoledì 10 febbraio 2010

Quella fabbrica davanti al mare


Niente paura, abbiamo dagli otto ai dieci progetti per riconvertire Termini Imerese. Ha detto così il Ministro dello sviluppo economico, dagli otto ai dieci, con una precisione che fossi negli operai siciliani comincerei a preoccuparmi davvero. Perché siamo solo all’inizio di una storia che ci farà compagnia per molti mesi ancora, alternando le poche voci drammatiche dei lavoratori e delle loro famiglie alle tante esternazioni di politici ed economisti che offriranno ricette ed alternative alla chiusura dello stabilimento. Unica cosa sicura dai cancelli di Termini non usciranno più automobili della Fiat. Cosi parlò Marchionne, capo un po’ marziano della azienda che fu di Torino e che adesso decide vita o morte delle fabbriche in volo tra l’Europa e Detroit come il George Cloneey del film Tra le nuvole. Ora noi non sappiamo come andrà a finire davvero la storia di quello che fu salutato, tra nastri tricolori da tagliare e bande comunali a inaugurare, come il polo industriale siciliano. Solo una cosa vogliamo suggerire a tutti quelli che andranno giù a Termini a raccontare i giorni che verranno. Quando arrivate davanti ai cancelli fabbrica, voltatevi solo un momento a guardare quello che c’è dall’altra parte. Perché una fabbrica davanti al mare, un mare bellissimo che c’era prima e ci sarà dopo, forse non spiega un destino segnato ma un poco fa pensare. (pubblicato su DNews)

mercoledì 27 gennaio 2010

Favara, Italia

I funerali di Marianna e Chiara, con la madre che si dispera, con la gente dentro e fuori la chiesa, sotto la pioggia, con l’arcivescovo in mezzo alla gente e non sull’altare, con il sindaco che dice ingiusto darmi la colpa, con la domanda per la casa popolare respinta, con le case popolari mai consegnate e già distrutte. Se volevamo ancora una fotografia aggiornata dello stato delle cose in questo paese, Favara, la storia siciliana di una famiglia spezzata dal crollo del rudere dove abitava, ce la serve senza attenuanti. Ognuno può ritrovarci vizi antichi e problemi perenni, retorica emozioni rabbia che si attorcigliano senza uno spiraglio che assomigli a una via d’uscita. La famiglia Bellavia viveva nel rudere e pagava cento euro al mese d’affitto, di più non poteva permettersi. Aveva fatto domanda per le case popolari, case da dare a chi se non a loro, ma erano stati esclusi perché mancava la documentazione, le carte, nessuno che li ha aiutati a fare le carte. E comunque non sarebbe servito a niente. Perche le 56 case popolari finite anni fa, non sono state mai consegnate. Di più, nessuno le aveva in custodia né il comune né quelli chi le avevano costruite, con i soldi di tutti. Cosi sono state devastate, chi ha portato via cessi, chi finestre, chi ha distrutto solo per sfregio. Ecco, la fotografia di Favara, chiunque voglia fare politica, se la incornici e si ripeta ogni giorno, cominciamo da qui. (pubblicato su DNews)

sabato 16 gennaio 2010

I numeri di Haiti


Su Haiti si fa fatica a dire, come dice bene il blog "Distanti saluti" . E comunque, con tutto il rispetto per la signora Gigliola, prima vittima italiana, avere un po' di senso delle proporzioni non guasterebbe.

mercoledì 13 gennaio 2010

Tra Dante e Rosarno


Che Italia hanno in mente le ragazze velate dell’universita di Sana’a che studiano la nostra letteratura, che mi raccontano di Dante e Petrarca, che parlano dell’Italiano come una lingua musicale? Mi è capitato di essere in Yemen in questi giorni, il compito era andare a raccontare un paese che aveva fatto venire i brividi al mondo, almeno a quello che guarda giornali e tv, la nuova frontiera del terrorismo, da qui è passato il giovane nigeriano Faruk che poi voleva farsi saltare in aria sul volo per Detroit. Mi sono ritrovato a parlare di libri e di Italia con ragazzi e ragazze che studiano e sognano il nostro paese. Erano gli stessi giorni di Rosarno, e allora mi veniva in mente l’effetto che avrebbe fatto vedere una ragazza velata a questa Italia di oggi, una ragazza velata che parla l’italiano meglio di noi, preferisce Verga a Manzoni e ti sa spiegare perché. Perché anche questi sono gli stranieri che guardano al nostro paese, che invece li guarda come un unico immenso pericolo. Lo so, la storia è complicata ma mi veniva da sorridere a pensare a certi italiani che reclamano di essere a casa loro e non sanno nemmeno accostare l’articolo a un sostantivo. Gli stranieri ci servono come il pane, invece non solo li sfruttiamo ma poi li prendiamo anche a fucilate. Per fortuna l’Italia è ancora quella di Dante e Petrarca e non quella di Rosarno. Almeno in Yemen. (pubblicato su DNews)