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giovedì 14 giugno 2007

150 ore di ricordi

Biglietto per nostalgici e per chi ama fare paragoni coi tempi che corrono. Basta solo dire 150 ore e i nostalgici capiscono. Primi anni settanta, il contratto dei metalmeccanici non era solo la busta paga degli operai, era un trattato attorno al quale crescevano e si passavano il testimone generazioni di ragazzi e ragazze. Per il rinnovo del contratto noi studenti scendevamo in piazza accanto a loro, gli operai e le cose scritte nel contratto diventavano parole d’ordine anche nelle scuole: rappresentanze di base, assemblea, egualitarismo.
Inutile tentare un bilancio in poche righe di quella stagione, sulla passione e le idiozie che la segnarono - un’infornata di libri recenti, causa anniversario 77, può tornare utile all’approfondimento - ma se c’è una cosa che rappresentò bene, a un tempo, il profumo di utopia e la concretezza dell’emancipazione di quegli anni, fu proprio la storia delle 150 ore. Scritte sui contratti come norma che prevedeva il diritto di usare quel tempo retribuito per stare fuori dalla fabbrica a studiare divennero rapidamente il simbolo di una nuova società possibile, dove gli operai leggevano libri e chissà, alla fine, ne avrebbero scritti, dove la voglia di rimescolare i ruoli e ribaltare la storia avrebbe fatto il resto, altro che “pezzo di carta” per salire di categoria.
Poi invece c’è stato il resto, quello vero. Fine della rivoluzione, gli operai fuori moda, gli studenti impegnati a diffondere le loro gesta su youtube, due mondi lontani ormai anni luce accomunati forse solo dal destino, simile, di una triste uscita di scena. E le 150 ore? Testarde quelle sono rimaste e, aggrappandosi più all’emancipazione che all’utopia, hanno continuato il loro lavoro nell’ombra consentendo a migliaia di lavoratori/studenti di migliorare, almeno la stima di sé stessi. Ora il fatto è che, da qualche tempo, di 150 ore si torna a parlare. L’idea è venuta al ministro per le politiche sociali Paolo Ferrero che ha pensato: perchè non proporre, su quel modello, una norma per facilitare chi fa volontariato, ore retribuite da fabbrica o ufficio ma usate fuori per aiutare chi sta peggio di noi. Così si è avviato dibattito, con torti e ragioni, “troppo comodo il volontariato se te lo pagano pure”, “giusto invece aiutare e premiare chi si impegna davvero per gli altri”, dibattito, purtroppo, con i toni tipici dell’oggi, volume alto, bianco e nero. Allora incrociamo le dita per le vecchie, care 150 ore, hanno passato indenni epoche di furore ideologico e di romanticismo giovanile, consegnando onesti diplomi mentre si facevano rumorose barricate e anche dopo, quando le fabbriche, in silenzio, si svuotavano. Non vorremmo che questo ritorno di notorietà si rivelasse.